giovedì 31 dicembre 2020

American Gigolò e Cruising. Il cinema americano anni ‘80 tra Eros e Thanatos.

L’inizio degli anni ‘80 coincide con l’uscita nelle sale di due opere che affrontano il tema del sesso da due angolazioni opposte suscitando un dibattito senza precedenti nei media di tutto il mondo. E’ un’epoca, quella della fine degli anni ‘70, in cui il cinema è ancora un potente mezzo espressivo capace di suscitare discussioni tra gli intellettuali e di coinvolgere il pubblico. Le due opere in questione sono dirette da due autori tra i più interessanti del cinema americano degli anni ‘80, William Friedkin e Paul Schrader. Se Friedkin è già conosciuto in tutto il mondo per due opere magistrali, Il braccio violento della legge, datato 1971, e il seminale L’Esorcista, del 1973, Schrader è uno degli autori emergenti della nuova Hollywood. Ha al suo attivo le sceneggiature di Taxi Driver e Toro Scatenato e ha diretto due lungometraggi di nicchia ma molto apprezzati dalla critica, Blue Collar e Hardcore. Diversa è anche la formazione culturale. Friedkin è un autodidatta che ha iniziato come fattorino presso l’emittente Tv WGN di Chicago mentre Schrader proviene da una famiglia protestante piuttosto rigida e fino all’età di 18 anni non ha mai visto un film. Friedkin ha un approccio documentaristico al suo cinema, scevro da giudizi morali, mentre Schrader, che ha ereditato dai suoi genitori la formazione religiosa, è ossessionato dai temi centrali del cristianesimo, il perdono e la redenzione in primo luogo, oggetto centrale di tutti i suoi lavori. E così American Gigolò e Cruising rappresentano due lati della stessa medaglia che hanno come soggetto principale il rapporto dell’America con il sesso.

Richard Gere in American Gigolò

Lo scrittore Brett Easton Ellis nel suo saggio Bianco (edito da Einaudi) dedica un capitolo al film di Schrader per il quale nutre un’ammirazione sconsiderata. Dice Ellis: “A posteriori l’impatto che American Gigolò ha avuto su di me è impossibile da quantificare, e non si tratta della grandezza del film - non è un gran film, cosa che trova d’accordo anche il regista - ma della maniera in cui ha cambiato il nostro modo di guardare gli uomini e di considerarli oggetti, e di come ha alterato il mio modo di pensare e vivere a Los Angeles: in questo, la sua influenza è stata enorme e innegabile.” In quest’ottica American Gigolò è più importante per l’impatto culturale e sociologico che ha avuto negli Stati Uniti, che non per la sua qualità filmica.
La storia di American Gigolò è abbastanza semplice. Julian Kay è un prostituto d’alto bordo che passa le giornate a vendere le sue attenzioni a ricche vedove o a mogli annoiate. Guadagna molto bene, frequenta locali esclusivi quali Ma Maison, Perino’s, Scadia e Le Dome, veste Armani e parla sei lingue. Un giorno l’uomo s’invaghisce di Michelle (interpretata dalla ex modella Lauren Hutton), moglie di un influente senatore, ma è accusato dell’omicidio di una sua cliente. Qui il film si tramuta in un thriller investigativo che vede Julian cadere dal piedistallo di vetro sul quale aveva poggiato la sua vita per confrontarsi con la realtà e con i sentimenti reali. Quello che però è importante è l’estetica dell’opera, seducente e fascinosa. American Gigolò è un neo noir assolato e minaccioso che intercetta al momento della sua uscita qualcosa della new wave di fine anni ‘70, minimalista e chic, lussureggiante e corrosiva (per usare due definizioni di Brett Easton Ellis) con un che di gay, cosa molto diffusa nel panorama dell’epoca. Il pubblico non ha mai visto sullo schermo un uomo trattato come oggetto nel modo in cui lo interpreta Richard Gere. Questi, appena trentenne, da al suo Julian quello charme e quell’indifferenza che ne fanno una star degli anni ‘80 insieme a John Travolta, che tra l'altro doveva essere il protagonista della pellicola. La musica di Blondie nei titoli di testa esplode come un inno anche se il film  come abbiamo detto è un dark noir reso ancora più elettrico dalla colonna sonora del nostro Giorgio Moroder. Quello che fa di American Gigolò un’opera d’autore, prodotta dalla Paramount e da Jerry Bruckheimer (il produttore di Top Gun, per intenderci), è l’approccio etico che Schrader ha della materia, così intrisa dal profondo sentimento di peccato e redenzione, al punto da arrivare ad omaggiare nel finale Robert Bresson con un’inquadratura letteralmente rubata a Pickpocket-Diario di un ladro

Richard Gere e Lauren Hutton

Dalla costa Ovest alla costa Est il salto è siderale sia dal punto di vista geografico che da quello autoriale.
Cruising è un film con una storia controversa. Nella New York di fine anni settanta un serial killer miete vittime tra i night club clandestini di Manhattan dove i gay si riuniscono per ballare, bere e avere incontri promiscui. Al Pacino interpreta Steve Burns, un giovane poliziotto incaricato  di entrare sotto copertura nel mondo dei bar sadomaso per scoprire il responsabile degli omicidi. La sua trasformazione, all’inizio soltanto apparente, diventa sempre più immersiva fino a lasciare il protagonista in una sorta di confusione sulla sua sessualità e sulla sua reale natura. Il caso alla fine troverà una apparente risoluzione ma lascerà molti dubbi nello spettatore...
Reduce dal fiasco de Il salario della paura, remake del capolavoro di Henry Clouzot Vite Vendute, Friedkin cerca il riscatto a Hollywood. I tempi del cinema d’autore però sono stati spazzati via dai blockbuster di George Lucas e Steven Spielberg e l’approccio cupo, nichilista e documentaristico del regista è oramai superato dall’ottimismo reaganiano che imperversa negli States. Quando, dunque, il regista decide di trasporre sullo schermo il romanzo di Gerald Walker il fallimento è annunciato. 

Al Pacino in Cruising

Nel 1979 sul Village Voice, il settimanale della controcultura newyorchese, il cronista  Arthur Bell, che si occupa della comunità gay, scrive una serie di articoli sulle morti e gli omicidi di cui è teatro il West Village. A rendere ancora più cupa l’atmosfera della Grande Mela si aggiungono gli omicidi nel Meatpacking District, un quartiere del Lower West Side denso di locali sadomaso. Bell racconta nei suoi articoli di corpi fatti a pezzi e gettati in sacchetti di plastica nel fiume Hudson. Le morti inspiegabili e i brutali omicidi suscitano l’attenzione di William Friedkin che chiede aiuto all’ex poliziotto Randy Jurgensen, già consulente per Il braccio violento della legge. Jurgensen fa da Virgilio al regista conducendolo nei locali teatro degli eventi. Nel frattempo, dopo poche settimane di indagini, l’omicida viene arrestato e Friedkin rimane a bocca aperta quando scopre di conoscerlo. Si tratta di un certo Paul Bateson che ha avuto la piccola parte del radiologo ne L’esorcista. Friedkin ottiene il permesso di parlargli in carcere scoprendo così che questi è il responsabile di numerosi efferati omicidi.
Per il ruolo da protagonista, dopo avere opzionato Richard Gere, è scelto Al Pacino, all’epoca una star. La reazione negativa al film comincia già prima delle riprese e le proteste diventano sempre più plateali rendendo la lavorazione difficile. Centinaia di dimostranti sono sempre presenti sul set e insultano la troupe mentre i rapporti tra il regista e il suo attore diventano conflittuali a causa del disinteresse di Pacino per il ruolo, probabilmente intimorito dal caos mediatico.
Cruising è boicottato dalle associazioni gay che accusano Friedkin di omofobia, nonché di rappresentare un’immagine distorta della cultura omosessuale americana. Il copione subisce numerose modifiche e all’uscita nei cinema la casa di produzione indipendente Lorimar impone dei tagli severi che portano il film al disastro al botteghino. Elementi chiave della psiche di Al Pacino sono alterati in modo da lasciare ambiguo il suo personaggio ma contribuendo anche a un senso di confusione circa le reali motivazioni di quest’ultimo. Al termine della storia, infatti, ci domandiamo se il poliziotto è bisessuale oppure no, se ha ereditato la vocazione omicida dell’assassino, oppure è tornato alla sua vita normale. Inoltre nel film la discesa di Pacino nel nuovo mondo non è mai chiara. Nei momenti chiave della storia non capiamo se il protagonista ha dei rapporti gay oppure no. La domanda, pertanto, sporge spontanea: perché raccontare una storia simile se non si ha il coraggio di chiarire le azioni del suo personaggio principale? Friedkin ha paura di offendere qualcuno? Allora perché scegliere quest’argomento? La stessa indagine sull'omicidio è in apparenza complicata ma la verità è che la struttura narrativa è un disastro. Non dovrebbe avere troppa importanza perché il film parla del coinvolgimento progressivo di Pacino nella cultura gay ma la storia, come abbiamo detto, elude questo argomento lasciandoci senza risposta.

Una scena di Cruising

Cruising è girato con maestria da Friedkin, grazie anche al lavoro di James Contner che realizza una fotografia monocromatica dominata dal blu ma è facile capire perché il film sia stato un flop senza precedenti e abbia sotterrato per sempre la carriera di Friedkin.
C’è da dire che, rivisto a 40 anni di distanza, in una versione integrale edita in BluRay dall'inglese Arrow Video, il film risulta ancora oggi disturbante. Tutti i film di Friedkin sono fonte di disagio. Pur apprezzando il lavoro del regista vedere le sue opere non è certo un momento piacevole. Friedkin è un maestro nel mettere in difficoltà lo spettatore con quello che il critico Roger Ebert definisce, a proposito de L’Esorcista ma lo stesso si può dire per Cruising, un assalto frontale al pubblico. Il regista non compiace mai lo spettatore, non offre nulla per affezionarsi ai suoi personaggi, al contrario propone un quadro umano fosco e disgustoso.
Non è difficile allora capire perché alla sua uscita nelle sale le critiche al film sono feroci. Arthur Bell definisce Cruising lo sguardo sull’omosessualità più oppressivo e bigotto mai presentato sullo schermo”, mentre La National Gay Task Force lo paragona a La nascita di una nazione di Griffith. La recensione di Variety recita: “Se Cruising  ha ottenuto la R di restricted, alla X resta solo la pornografia pura e semplice”.



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domenica 29 novembre 2020

Perché La Regina degli Scacchi è il miglior film dell'anno


Parigi, 1960. Una ragazza addormentata nella vasca da bagno di una camera d’albergo si sveglia coi postumi di una sbornia. Stanno bussando alla porta, la giovane si precipita ad aprire e scopre con orrore che è in ritardo. Si veste rapidamente, ingoia un paio di pillole con un alcolico e si reca nel salone dell’albergo, dove ad attenderla c’è una scacchiera e un uomo dall’aspetto serioso, inappuntabile nella sua grisaglia grigia.

E’ l’incipit de La regina degli scacchi, la storia di una donna che scopre il gioco nel seminterrato di un orfanotrofio e diventa campionessa del mondo. Un soggetto all’apparenza impossibile da filmare ma che sotto la supervisione dello showrunner e regista Scott Frank è diventato il grande successo di questo autunno 2020 targato Netflix.

La Regina degli scacchi (in originale The Queen’s Gambit, ovvero il gambetto di donna, una delle mosse più micidiali del gioco) è tratto dall’omonimo romanzo di Walter Tevis, già abile romanziere de L’uomo che cadde sulla terra, Lo spaccone e Il colore dei soldi

A leggere la sinossi della storia, "Una serie drammatica sulla dipendenza, l’ossessione, il trauma e gli scacchi", il primo aggettivo che verrebbe in mente non sarebbe certo "elettrizzante". Tuttavia The Queen's Gambit è davvero "emozionante". La serie, sostenuta da una performance magnetica della protagonista, da una recitazione di livello mondiale, da un meraviglioso linguaggio visivo e da una sceneggiatura avvincente è una delle migliori dell'anno; per dirla come il New York Times, un trionfo.


Anya Taylor-Joy ne La regina degli Scacchi


Questa miniserie in sette parti ha come protagonista Elizabeth Harmon, interpretata da bambina da Isla Johnston e dai quindici anni in poi dalla prodigiosa Anya Taylor-Joy, che avevamo già conosciuto nell’interessante The Witch, diretto da Robert Egger. 

La piccola Beth resta orfana a otto anni dopo un incidente stradale nel quale perde la vita la madre single. La ragazzina è ospitata in un orfanotrofio cristiano del Kentucky dove diventa dipendente dalle pillole di Litio, un calmante che fino agli anni ‘50 era somministrato ai bambini per mantenerli calmi. In questa routine quotidiana alienante che vede i piccoli andare a scuola, cantare nel coro della chiesa e assistere a peplum movie religiosi come La tunica, Beth scopre nella cantina dell’istituto il custode Shaibel (l’attore Bill Campbell in un’interpretazione raffinata, tutta in sottrazione), un appassionato di scacchi che la introduce al gioco. Fin da subito la bambina sembra possedere delle doti innate e dopo essere stata presentata da Shaibel all'allenatore di scacchi della squadra del liceo locale inizia una carriera di scacchista che la porterà dodici anni dopo a Mosca a sfidare il campione del mondo sovietico Borgov. In mezzo assistiamo alla crescita della giovane Beth, una metamorfosi da crisalide a farfalla, segnata da un’adozione sfortunata, dalla dipendenza dagli psicofarmaci e dal consumo dissennato di alcol. Di più non è il caso di svelare poiché la serie ha l’andamento di un vero e proprio romanzo di formazione dai toni dickensiani nella prima parte per poi trasformarsi in un coming of age sportivo dai toni mitici nella seconda. 

L’andamento della storia è caratterizzato dunque da una struttura solida e da interpretazioni convincenti. Anya Taylor-Joy è all'altezza del compito riuscendo a essere affascinante e piena di glamour ma anche straziante, vulnerabile e divertente, spesso allo stesso tempo. È un’interpretazione davvero memorabile che scuote lo schermo e ci ricorda la migliore Meryl Streep degli anni ‘70. 


Anya Taylor-Joy

Anche i comprimari regalano momenti di grande recitazione pur essendo presenti in pochi episodi. Di Bill Campbell e il suo Shaibel abbiamo già detto, ci piace ora segnalare la regista Marielle Heller, qui nei panni di Alma, l’infelice madre adottiva. 

La confezione visiva è stupenda (dalle scenografie ai costumi) e l’esposizione del gioco è graficamente ben rappresentata. Dietro la macchina da presa troviamo Scott Frank che ha al suo attivo una carriera di solido sceneggiatore di film culto, quali Get Shorty, Minority Report e il recente Wolverine, mentre come regista ha diretto nel 2014 il noir implacabile La preda perfetta e nel 2017 la miniserie, sempre per Netflix, Godless. La sua messa in scena è cinematografica con inquadrature che ricordano il primo Brian De Palma. A titolo esemplificativo basti vedere come il regista filmi gli incontri di scacchi nell’episodio ambientato in Messico, giocando con le messe a fuoco tra primissimi piani e sfondi, oppure nel finale della serie, quando alla tradizionale steadycam sostituisce la macchina a mano per filmare con passo volutamente mosso, la passeggiata di Elizabeth nel parco di Mosca. Ogni “battaglia” sulla scacchiera rappresenta dal punto di vista metaforico un passaggio importante dell’evoluzione di Beth, sia dal punto di vista dell’apprendimento che di quello spirituale o intimo. 

La costumista Gabriele Binder, il truccatore Daniel Parker, lo scenografo Uli Hanisch (che ha al suo attivo Cloud Atlas e Babylon Berlin) fanno molto di più che catturare l'aspetto e l'atmosfera degli anni '60 negli Stati Uniti e all'estero. Usano quella estetica per illuminare la mentalità di Beth. Quando essa si trova in un equilibrio precario, in piena crisi interiore, il suo eyeliner la fa sembrare ancora più magra e fragile. 

Come ogni film di sport, La regina degli scacchi prende vita grazie al montaggio. La montatrice Michelle Tesoro realizza delle sequenze elettriche, ognuna differente dall’altra. Alcune fanno trattenere il respiro, altre sono commoventi, altre ancora esasperanti. Parte del merito è dovuto anche ai consulenti di scacchi Bruce Pandolfini e Garry Kasparov, quest’ultimo già campione del mondo dal 1985 al 2000. 


Una scena de La Regina degli Scacchi

Ogni grande storia sportiva non ha uno, ma due cuori pulsanti. C'è lo sport stesso, un gioco o una competizione in cui lo spettatore viene coinvolto. E poi ci sono il giocatore o i giocatori, con la loro vita, più grande del gioco. La regina degli scacchi possiede entrambi quei cuori. Scott Frank, Anya Taylor-Joy e la compagnia di giro non smettono mai di raccontare entrambe queste storie e il risultato è l’affascinante ritratto di una giovane donna che lotta per diventare la persona che vuole essere. Quando il suo viaggio la porta a Parigi ricorda le parole della madre adottiva e passa il tempo a vagare per musei, nutrendo la sua anima con qualcosa di più degli scacchi. Eppure non c'è mai alcun dubbio che da qualche parte, in qualche angolo della sua mente, ha gli occhi sul tabellone. Ed è un privilegio per noi spettatori vedere quell'angolo e vedere la bellezza del mondo, tutto in una volta. La regina degli scacchi rappresenta in modo convincente la linea sottile che intercorre tra genio e follia e lo fa con uno stile narrativo e rappresentativo totalmente cinematografico. Un lungo, imperdibile film di sei ore.




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sabato 21 novembre 2020

Un anno di Apple TV + La piattaforma della mela compie il suo primo anno di vita con risultati incerti.

 

Nonostante l’entusiasmo dei dirigenti Apple nessuno nel mondo dell’audiovisivo in questi 12 mesi sembra aver mai pensato seriamente a Apple TV Plus. Dopo avere investito 6 bilioni di dollari e avere coinvolto talenti del calibro di JJ Abrams, Steven Spielberg, Reese Witherspoon e Oprah Winfrey, la nuova piattaforma non sembra infatti avere molte frecce al suo arco nell’agone dello streaming internazionale. Il clamoroso successo di Disney Plus, sbarcato a marzo in tutto il mondo, ha dimostrato inoltre che il cammino che la società di Cupertino deve fare nel settore dei contenuti on line è ancora molto lungo.
Tuttavia c’è da ricordare che lo streaming non è uno sprint ma una maratona e l'anniversario di Apple Tv Plus coincide con un lento ma costante miglioramento. Di strada il colosso della mela ne dovrà fare tanta prima di essere competitivo rispetto a Netflix o Amazon Prime.

La verità è che i titoli nuovi attraggono il pubblico ma è la forza del catalogo a trattenerli e in questo momento la library di Apple Tv Plus è di fatto inesistente. In un anno sono state pubblicate 31 serie e una manciata di film. Nessuno di questi titoli, fatta eccezione per The Morning Show, sembra aver scaldato il cuore degli spettatori o della critica. Attualmente la linea editoriale della Apple sembra essere indirizzata verso prodotti semi generalisti senza la forza dirompente di alcuni prodotti HBO o di Netflix. Il pubblico di riferimento sembra essere molto largo, più orientato verso l’età adulta e i bambini in età pre adolescenziale piuttosto che verso i millennials o la generazione Alpha. Servant di M. Night Shyamalan è un horror raffinato mentre Ted Lasso è una commedia intelligente che sembra aver trovato un suo pubblico essendo giunta già alla terza stagione (attualmente in fase di pre produzione), mentre il recente Teheran è una spy story di produzione israeliana per intenditori. Al contrario, il fantasy See con Jason Momoa non ha appassionato le platee mentre Amazing Stories di Steven  Spielberg è sembrato ai più un prodotto decotto da Tv anni ‘80.


The Morning Show

I numeri ci confermano che oltre questa scarna offerta non esiste un catalogo. Per fare un confronto Apple Tv Plus ha 400 volte meno film di Netflix (fonte The Verge) e pochissimi dei lungometraggi presenti nel suo catalogo sono davvero imperdibili, fatta eccezione per Hala, delicato dramedy adolescenziale sull’integrazione di una giovane musulmana in America, Greyhound, un kolossal ambientato in mare durante la II guerra mondiale, con Tom Hanks come protagonista, e la commedia di Sofia Coppola On The Rocks, giunta on line il 23 ottobre, con un fantastico Bill Murray e Rachida Jones. Ma queste sono eccezioni che non bastano a giustificare la richiesta di 5 Euro o dollari al mese ai suoi spettatori. Ragion per cui Apple ha deciso di prorogare di altri tre mesi i 12 di abbonamento offerti a novembre del 2019 a tutti quelli che avevano acquistato un loro prodotto.

Si tratta di un problema di cui Apple è consapevole. Secondo l'analista di Media e Telecomunicazioni Michael Nathanson (https://www.moffettnathanson.com/), Apple TV Plus è “l'unico servizio che attinge la maggior parte dei suoi abbonati da promozioni”. Inoltre, il 29% degli abbonati a Apple TV Plus pare non abbia intenzione di rinnovare l’abbonamento una volta scaduto il periodo di prova gratuito.

Secondo inoltre un sondaggio di HarrisX (https://harrisx.com/), Apple TV Plus sta affrontando una delle più alte percentuali di abbandono (17%) tra tutti i principali attori nello streamer. Nathanson ha scritto che il nuovo servizio “potrebbe perdere slancio se non sarà in grado di invogliare il suo pubblico con nuovi eccitanti contenuti nei prossimi mesi.” 


Ewan McGregor e Charley Boorman


Come altre società, Apple non è immune ai problemi causati dalla pandemia e ha dovuto suo malgrado interrompere la produzione di film e di serie Tv, lasciando in un guado la lenta creazione di una piattaforma proprietaria. Il magnate dei media Barry Diller (attualmente nella Fox Broadcasting Company) ha detto al giornalista della NBC Dylan Byers che Apple "non è ancora entrata nel business dello streaming con entrambi i piedi". Il lavoro è dunque ancora all’inizio. Il ruolo di Apple TV Plus sta diventando sempre più quello di un driver utile a rafforzare la vendita del nuovo pacchetto Apple One, raccogliendo servizi come Apple Music, Apple TV Plus, Apple Arcade e iCloud in un unico abbonamento. Apple TV Plus è dunque solo un tassello nella creazione di un ecosistema di servizi che ha l’obiettivo di essere abbastanza allettante da convincere le persone a pagare un pacchetto rimanendo così bloccati nell'universo Apple. 


On The Rocks di Sofia Coppola

Apple non vende più iPhone o dispositivi come una volta, ragion per cui si sta impegnando nella creazione di un ecosistema basato sui servizi. Lo scorso trimestre l’azienda ha registrato un fatturato record di 13,3 miliardi di dollari dalla sua nuova divisione, quasi 2 miliardi di dollari in più rispetto all'anno precedente. Il CEO Tim Cook, inoltre, ha sottolineato quanto sia importante la divisione servizi di Apple. La società ha iniziato a concentrarsi per la prima volta sul software nel 2015 dopo che la crescita dell'iPhone è rallentata e da allora i servizi hanno prosperato.

Affinché Apple TV Plus sia un'opzione valida, anche come parte di un pacchetto, deve perciò offrire qualcosa che valga la pena di acquistare. Al momento non lo fa (da qui la prova gratuita estesa), ma ci sta arrivando. Apple ha anche iniziato a cambiare la sua strategia, affermando di voler potenziare la propria library. Offrire soltanto il prodotto originale, infatti, non basta per essere appetibili. Netflix, nonostante gli investimenti elevati fatti nella produzione, ottiene il maggior flusso di abbonati grazie a prodotti come Friends che fanno parte del loro catalogo piuttosto che da serie come La casa di carta e Mindhunter, importanti per posizionarsi sul target ma che non sviluppano grandi numeri. Come ha detto il CEO di AT&T ed ex amministratore delegato di Warner Media John Stankey a proposito di HBO Max, i titoli originali portano all'acquisizione dei clienti, ma le biblioteche forti li rendono fidelizzati.

Apple TV Plus è quindi un disastro? Di certo non ha avuto il successo di Disney Plus, ma Apple non ha bisogno di diventare il più grande servizio di streaming al mondo. Ha solo la necessità di avere nuovi contenuti, in modo coerente, per far sentire le persone a posto spendendo 5 dollari al mese o, come probabilmente preferirebbe Apple, acquistando un piano bundle. È giusto dunque che il primo anno di Apple TV Plus sia stato per lo più gratuito, dando ai curiosi l'opportunità di vedere se la casa della mela poteva farcela. 

L'azienda vale più di 2 trilioni di dollari e dispone di una quantità di denaro pressoché illimitata, anche se questo non è un fattore che si traduce automaticamente in creatività. Pure Amazon ha risorse illimitate e sta lottando per occupare un posto di primo piano nelle produzioni audiovisive. Apple potrebbe finanziare TV Plus come un progetto collaterale che consentirebbe a Tim Cook di sedersi con le celebrità durante la serata degli Oscar, senza avere la preoccupazione di andare in rosso. Si tratterebbe comunque di un’operazione di comunicazione del brand molto centrata che aumenterebbe, ove mai ce ne fosse ancora bisogno, la popolarità del brand. Inoltre, Cook e il suo team hanno chiarito che è della massima importanza sviluppare la propria offerta di servizi e generare decine di miliardi di dollari di entrate ogni anno tramite app che invitano le persone a tornare. Come ha detto Diller alla NBC, Apple ha tentato di entrare nel gioco lo scorso novembre. Ha tutto il potere, l'influenza e le capacità per diventare una forza culturale, ma i dirigenti devono ancora impegnarsi a fondo. E’  giunto oramai il momento di inspirare e immergersi nel mare magnum dei contenuti on line.





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sabato 31 ottobre 2020

L'Uomo che volle farsi Re

 

Ci sono dei film che sono legati in maniera indissolubile alle sale cinematografiche in cui sono stati visti per la prima volta. E' un esercizio di memoria ricorrente e nostalgico, soprattutto coi titoli visti tanti anni fa, quando ancora l'unico modo per vedere un film era quello di andare al cinema. Negli anni '70 non esistevano VHS né tanto meno DVD, internet era ancora un esperimento militare top secret e i poveri liceali squattrinati dovevano aspettare che un film passasse in seconda visione per potere essere accessibile. Ed è proprio in un cinema di seconda visione che ho visto per la prima volta L'uomo che volle farsi Re. Il cinema Smeraldo si trovava a Piazza Cola di Rienzo a Roma, ora è stato soppiantato da una libreria Mondadori e a pensarci bene il locale ha subito una sorte migliore rispetto alle decine di sale trasformate negli ultimi trent'anni in supermercati, garage e Bingo. Ad ogni buon conto vidi il film in un sabato pomeriggio del 1976. Era un'epoca straordinaria per il cinema. Si affacciavano prepotenti a Hollywood i Movie Brats (i ragazzi terribili): Spielberg aveva già diretto Lo Squalo (Jaws), Coppola Il Padrino I e II (The Godfather), Scorsese Mean Streets e Taxi Driver e Lucas un anno dopo avrebbe sconvolto il linguaggio cinematografico con Guerre Stellari (Star Wars).

Il Poster del film

In questo contesto di mutazione straordinaria (l'ultima grande evoluzione del cinema) il vecchio leone John Huston (all'epoca il regista  aveva 70 anni e festeggiava i suoi 35 anni di attività di regista) aveva un curriculum che annoverava capolavori del calibro de Il Mistero del falco (The Maltese Falcon), Il Tesoro della Sierra Madre (The Treasure of The Sierra Madre) e La Regina d'Africa (The African Queen).
Tratto dal romanzo omonimo di Rudyard Kipling L'uomo che volle farsi Re narra le rocambolesche gesta  di una coppia d'imbroglioni - Daniel Dravot (Sean Connery) e Peachy Carnehan (Michael Caine), due soldati in congedo dell'impero britannico - che intraprendono un periglioso viaggio verso il Kafiristan, una regione sperduta ai confini dell'Afganistan, nel tentativo di trovare la fortuna in quella remota terra, popolata da selvaggi, sfruttando le proprie abilità militari. Giunti a destinazione i due non tardano ad accaparrarsi la fiducia degli ingenui locali, convinti che Dravot sia nientemeno che la reincarnazione di Alessandro Magno, dotato quindi di poteri sovrannaturali. Dravot viene dunque incoronato Re e ha accesso alle immense ricchezze in oro conservate dai tempi remoti di Alessandro. Tuttavia la sorte girerà le spalle quando quest'ultimo, oramai a suo agio nei panni di sovrano, deciderà di prendere in moglie una ragazza del luogo (l'esotica Roxanne, interpretata dalla moglie di Caine, Shakira). L'epilogo non potrà che essere drammatico ma la leggenda dei due avventurieri troverà un'eco nelle pagine redatte dal giornalista Rudyard Kipling che dedicherà a loro un libro.

Sean Connery e Michael Caine

In questo film ricorrono due elementi cardine del cinema hustoniano, ovvero la bramosia dell'uomo (tema già affrontato ne Il Tesoro della Sierra Madre), e il picaresco viaggio in terre sconosciute (vedi anche La Regina d'Africa). Tutto è affrontato con uno stile asciutto, coadiuvato da un copione impeccabile firmato dallo stesso Huston in collaborazione con Gladys Hill.
Una menzione merita la splendida fotografia di Oswald Morris e l'epica colonna sonora di Maurice Jarre (quello de Il ponte sul fiume Kwai e Lawrence d'Arabia). Huston dirige con un gusto che all'epoca apparve classico e un po' antiquato rispetto ai giovani autori sovra citati ma che al contrario oggi risulta quanto mai moderno nella sua assoluta semplicità.
Fantastico il duo Connery-Caine al quale si aggiunge un efficace Christopher Plummer nel ruolo di Kipling.
Imperdibile.

sabato 24 ottobre 2020

Bond Legacy Parte quarta. AGENTE 007, THUNDERBALL OPERAZIONE TUONO (THUNDERBALL)


Dopo l’enorme successo di Agente 007, Missione Goldfinger (Goldfinger) i produttori sono intenzionati a trasportare sullo schermo le vicende di Al Servizio Segreto di Sua Maestà (On Her Majesty’s Secret Service). Le difficoltà incontrate nel trovare le giuste locations spingono Saltzman e Broccoli a spostare la loro attenzione su Thunderball Operazione Tuono (Thunderball). Il problema principale risiede in un accordo da trovare con Kevin McClory, il coautore della storia che in origine avrebbe dovuto dirigere il film. Le controversie legate alla querelle con Ian Fleming costringono i due tycoon ad accettare un accordo oneroso per usufruire dei diritti cinematografici. La questione successiva è trovare un regista. Guy Hamilton non ne vuole sapere di tornare sul set, così Saltzman e Broccoli virano su Terence Young. Quest’ultimo, deluso dal rifiuto dei due di accettarlo come terzo partner produttivo per Goldfinger, acconsente a tornare dietro la macchina da presa in cambio di un compenso faraonico.

Le riprese cominciano il 16 febbraio 1965 in Francia, presso lo Château d’Auet. Tre giorni dopo Agente 007, Missione Goldfinger (Goldfinger) è nelle sale parigine mentre nel frattempo i romanzi di Fleming sfondano la quota di 50 milioni di copie vendute nel mondo e il merchandising è alle stelle. Le riprese alle Bahamas sono dunque funestate dall’isteria collettiva dei fans che assediano il set, impedendo a Connery e alla troupe di lavorare con serenità.


Il poster di Thunderball


In Francia si celebra il funerale del colonnello Jacques Bouvier. Bond partecipa alla funzione, poi va a porgere le condoglianze alla vedova che si rivela essere Bouvier stesso, agente numero sei della SPECTRE. Dopo una violenta colluttazione 007 uccide la spia e fugge su un elicottero monoposto.

A Parigi si svolge una riunione segreta della SPECTRE. Su indicazione di Blofeld, il numero due dell’organizzazione Emilio Largo è incaricato di supervisionare l’Operazione Tuono. Il piano prevede di rubare due testate atomiche per poi chiedere un riscatto di 280 milioni di dollari. 

Intanto Bond è nella clinica di Shrublands a godersi una settimana di cure fisioterapiche. Nel resort è presente anche Angelo Palazzi, un agente della SPECTRE che ha subito un intervento di chirurgia plastica che lo ha reso identico al Maggiore dell'aeronautica François Derval. Quest’ultimo è assassinato e Palazzi ne prende il posto, introducendosi in un bombardiere della NATO che viene dirottato con le atomiche a bordo. Il velivolo affonda nelle acque delle Bahamas, nei pressi di Nassau, dove a coordinare le operazioni, a bordo del panfilo “Disco volante”, c’è Largo con i suoi uomini. Nel corso di una riunione, convocata d’urgenza dall’MI6, viene consegnato a Bond un dossier riepilogativo degli eventi. La spia riconosce in una foto nel fascicolo François Derval. Egli, infatti, ne ha visto il cadavere in clinica. L’ufficiale ha una sorella, Dominique, detta Domino, che viaggia con Emilio Largo e si trova a Nassau. Bond individua nella ragazza una traccia per indagare e chiede di essere inviato alle Bahamas. Egli ha solo quattro giorni prima che scada l’ultimatum della SPECTRE.

Giunto a destinazione, il nostro abborda Domino e sfida Emilio Largo, protettore della ragazza, al tavolo da gioco del casinò. Poi di notte Bond ispeziona sott’acqua il Disco Volante alla ricerca delle testate ma è scoperto dagli uomini di Largo. L’agente riesce a fuggire grazie all’aiuto di Fiona Volpe, in realtà complice del numero 2 della SPECTRE. Dopo averla sedotta, Bond capisce di essere caduto in una trappola ma riesce a fuggire a Fiona e ai suoi sicari, che lo inseguono per le vie della città mentre è in corso il carnevale. Scampato al pericolo, Bond rivela a Domino che suo fratello è stato assassinato. Dopo avere scoperto che gli ordigni sono nascosti nel bombardiere 007 partecipa con la marina statunitense al conflitto subacqueo con gli uomini di Largo per recuperare le armi. Quest’ultimo fugge col Disco Volante ma Bond è alle sue calcagna e lo affronta. L’agente sta per soccombere quando Domino accorre in suo aiuto uccidendo il numero due della SPECTRE.


Una scena di Thunderball


In Agente 007, Thunderball Operazione Tuono (Thunderball) gli ingredienti sono i medesimi di Goldfinger ma le intenzioni degli autori sono quelle di realizzare uno spettacolo ancora più grande. La prima sequenza del film prevede l’introduzione di un gadget creato per l’esercito: un razzo in grado di decollare in verticale trasportando un uomo per un centinaio di metri. Inoltre la storia prevede uno yacht in grado di trasformarsi in aliscafo, un elicottero della marina statunitense di nuova concezione, svariati mezzi di immersione e il ritorno della Austin Martin DB5. Il problema principale è il tono della storia, indecisa tra l’impronta più seriosa di Fleming, o quella più umoristica di Goldfinger. Ne consegue un ibrido che si mantiene fedele al plot del romanzo accentuando solo la valenza spettacolare. Immersioni, gadgets, armi letali, sono tutti elementi che amplificano la dimensione ludica della vicenda ma che non bastano a fare di Agente 007 Thunderball Operazione Tuono (Thunderball) una pellicola riuscita. Prolisso, a dispetto dei mezzi produttivi amplificati dall’utilizzo del cinemascope, il film è una sequela di interminabili sequenze subacquee, prive di ritmo e suspense.

La data di uscita è fissata per il 21 ottobre 1965 ma alcuni problemi fanno slittare l’anteprima di un paio di mesi. Innanzitutto la durata del pre montato, supervisionato da Peter Hunt, supera le quattro ore. Inoltre le sequenze subacquee sono state girate da più angolazioni senza uno storyboard, ragion per cui editarle è arduo.

Nel frattempo il successo mondiale di Agente 007, Missione Goldfinger (Goldfinger) ha inaugurato un filone di pellicole spionistiche, emule di James Bond. Nel 1964 escono Carry on Spying, L’uomo di Rio (The Man From Rio) e Troppo caldo per giugno (Hot Enough for June), mentre l’anno successivo parte la serie Tv Get Smart, scritta da Mel Brooks e Buck Henry.


Adolfo Celi e Sean Connery in Thunderball

Intanto la macchina pubblicitaria di Thunderball si è messa in movimento. Claudine Auger inizia il suo tour promozionale a novembre e Tom Jones (interprete della title track) fa la sua prima apparizione all’Ed Sullivan Show. In vista dell’uscita del film la United Artists ristruttura il Paramount Theater di New York cambiando tutte le 3620 poltrone. La première americana è fissata per le 9 di mattina del 21 dicembre 1965 ma la decisione più importante a livello di marketing è quella di effettuare l’anteprima mondiale del film a Tokyo, il 9 dicembre dello stesso anno. Il motivo è semplice: il prossimo episodio della serie, Agente 007, Si vive solo due volte (You Only Live Twice), è ambientato nel paese del Sol Levante. 

Le recensioni del film sono tiepide. Thunderball è considerato un blockbuster e tutti i critici convengono sulla sua spettacolarità, giudicandolo tuttavia freddo e tedioso. Nonostante ciò il risultato al botteghino è sensazionale. In Germania la pellicola stacca un milione di biglietti nella prima settimana di programmazione mentre batte tutti i record d’incasso a New York e a Londra, superando i proventi di Goldfinger. Agente 007 Thunderball operazione tuono diventa dunque il maggior successo del 1966. Comprese le vendite del merchandising gli incassi sfiorano il bilione di dollari. In soli tre anni Bond si è trasformato in un fenomeno culturale imitato da tutti. Potrà sopravvivere all’isteria collettiva?

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domenica 11 ottobre 2020

Cercando la luce. L’autobiografia di Oliver Stone.

 Se la leggenda diventa realtà vince la leggenda.

Questa battuta, tratta da L’uomo che uccise Liberty Valance di John Ford, sintetizza quello che Oliver Stone pensa di Hollywood. C’è un brano della sua autobiografia, Cercando la luce, edita da La nave di Teseo che ben descrive l’approccio di Stone al cinema, esattamente all’opposto di quello di John Ford. Nel 2017 il regista scopre che la sceneggiatura di Fuga di mezzanotte, con la quale nel 1978 ha vinto il suo primo Oscar, non è basata su fatti reali. Bill Hayes, l’americano condannato a 30 anni di prigione in Turchia per detenzione di hashish, ha infatti ammesso di aver fatto il contrabbandiere di droga e che le sue memorie, dalle quali lo sceneggiatore ha tratto il film, sono state da lui romanzate per incontrare il favore dei lettori americani.
Oliver Stone, scrive nella sua biografia, non avrebbe mai scritto il copione se avesse conosciuto i fatti reali ma, commenta con amarezza, a Hollywood non interessa la verità. “Io sono convinto che come drammaturghi dobbiamo sforzarci di rispecchiare lo spirito della verità, se siamo in grado di conoscerla; fondamentale è una scrupolosa attività di documentazione. Ma un’ombra lunga grava ancora su questa impresa che è il cinema: tu puoi portare avanti le tue ricerche e arrivare a una verità ma, se questa non è memorabile, o è troppo complessa, alla maggior parte della gente non interesserà, non verranno a vedere il tuo spettacolo. Il pubblico vuole credere. Su questo tema, la mia carriera sarebbe incespicata più di una volta.” 

In effetti, tutte le volte che Oliver Stone ha raccontato nei suoi film persone reali ha suscitato polemiche. Che si tratti di Kennedy, oppure Nixon, fino ad Alessandro Magno, i critici lo hanno attaccato, talvolta a ragione, per inesattezze storiche o forzature personali su questioni politiche. 


Oliver Stone sul set di Platoon


Le oltre 600 pagine del memoir coprono la vita di Oliver Stone dall’infanzia fino alla vittoria dell’Oscar con Platoon, lasciando il lettore con l’amaro in bocca. L’autore, infatti, non ripercorre la carriera che va dal 1987 a oggi. Mancano dunque all’appello titoli importanti del calibro di Wall StreetJFK, Nato il quattro luglio, Tra cielo e terra e Assassini nati. Penso dunque che un secondo capitolo di questa autobiografia sia inevitabile. Per il momento possiamo goderci questo ritratto impietoso che l’artista fornisce di se stesso, soprattutto nella prima parte del libro, la più interessante, che affronta la sua vita familiare e la sua decisione, a soli 21 anni, di arruolarsi in Vietnam. Alla base di questa scelta c’è la profonda delusione di Oliver per il divorzio dei genitori. Il padre è un ex ufficiale dell’esercito che ha combattuto la seconda guerra mondiale e ha trovato in Francia l’amore. La madre del regista è, infatti, una parigina vivace che instaura col figlio un rapporto di estremo affetto ma anche di disinteresse, lasciandolo col padre quando, dopo quasi vent’anni di matrimonio, s’invaghisce di uno squattrinato fotografo e lascia la famiglia senza più dare notizie di sé per un paio d’anni.
Per sfuggire all’atmosfera rigida instaurata dal padre, un agente di cambio repubblicano che sogna per il figlio una carriera accademica, nel 1967 il ragazzo lascia Yale e fugge in Vietnam dove resta per un anno e mezzo come soldato semplice, vivendo un’esperienza decisiva, alla base della sua opera più celebre, Platoon. E’ nella giungla, infatti, che conosce il sergente Elias, immagine di un’America positiva e il sergente Barnes, il suo alter ego malefico. In realtà, come spiega lo stesso autore, la storia è costruita sull’Iliade e sui personaggi omerici di Achille e Ettore, proiettati nelle foreste pluviali del Vietnam.

Rientrato negli Stati Uniti, il nostro si mette subito nei guai ed è arrestato a San Francisco per possesso di hashish. Sbattuto in galera deve chiedere aiuto al padre ma l’esperienza in carcere gli tornerà utile per scrivere Fuga di Mezzanotte


Un giovane Oliver Stone in Vietnam

 Tornato nella Grande Mela Oliver s’iscrive alla scuola di cinema della New York University dove già insegna un venticinquenne Martin Scorsese. E’ il periodo della nouvelle vague francese e della sperimentazione godardiana ma il futuro regista predilige storie forti e ben strutturate e si mette in luce per il suo approccio realistico.

La vera ricompensa per gli appassionati di cinema è il resoconto che egli fornisce delle sue prime esperienze, passando dall’essere un tassista di trent’anni a uno dei migliori sceneggiatori di Hollywood, affermatosi con l’Oscar ottenuto per Fuga di mezzanotte. Prodotta da Peter Guber (destinato a diventare il tycoon della Sony) e diretta dall’inglese Alan Parker (recentemente scomparso), la pellicola è tratta dalle memorie - non attendibili col senno di poi - dell’americano Bill Hayes, arrestato a Istanbul per traffico di fumo, poi rinchiuso in una galera turca dove sarà fatto oggetto di torture indicibili prima di riuscire a fuggire.

Dopo l’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale, il passaggio di Oliver Stone da scrittore a regista è obbligato e nel 1981, dopo lo sperimentale Seizure, il cineasta dirige l’horror The Hand (La mano) con Michael Caine. 

Se la carriera come regista non promette nulla di buono quella come sceneggiatore procede alla grande. Lo scrittore, infatti, è chiamato da Ed Pressman a occuparsi della trasposizione sullo schermo dei romanzi di Robert E. Howard dedicati a Conan il barbaro. La creatura di Howard è già stata oggetto di una trasposizione a fumetti leggendaria, scritta da Roy Thomas e disegnata dall’inglese Barry Windsor Smith. Stone è un appassionato lettore delle strisce e immagina una saga composta da ben 10 lungometraggi. La stesura del primo copione è di ben 140 pagine e il preventivo stanziato  ammonta a oltre 100 milioni di dollari, un budget troppo elevato per l’epoca. Il progetto passa così in mano a Dino De Laurentiis che offre la regia a John Milius. L’incontro tra il regista di Un Mercoledì da leoni, nonché co sceneggiatore di Apocalypse Now e non accreditato de Lo squalo, e il giovane scrittore è indimenticabile. Stone, divenuto pacifista convinto dopo l’esperienza vietnamita, si scontra infatti con il carattere belligerante di Milius e la collaborazione va presto in frantumi. Alla fine ne esce un lungometraggio molto diverso da quello immaginato da Oliver Stone che lancia il giovane austriaco Arnold Schwarzenegger nell’empireo delle nuove star di Hollywood.


Arnold Schwarzenegger in Conan il barbaro


Subito dopo Stone è messo sotto contratto da Martin Bregman per occuparsi del copione di Nato il 4 luglio. Tratta dal libro del reduce Ron Kovic, la storia narra la vita di un autentico patriota che, partito per la guerra del Vietnam, torna in patria paraplegico dopo essere stato ferito, diventando un autentico pacifista. Il copione scritto da Stone è in parte anche autobiografico. Lo sceneggiatore vede in Ron Kovic quello che avrebbe potuto diventare se la fortuna non lo avesse assistito in Vietnam. La produzione dovrebbe vedere dietro la macchina da presa nientemeno che William Friedkin, poi sostituito dal mestierante Donald Petrie, e come protagonista il trentottenne Al Pacino. Ma i fondi promessi non arrivano e il progetto decade proprio quando è stata fissata la data di inizio riprese. Per Oliver Stone, che nel progetto ha investito tutto se stesso, si tratta di un duro colpo. Dopo Platoon questo è il secondo titolo ambientato in Vietnam a saltare e il sogno di portare sullo schermo le sue esperienze di vita sembra davvero impossibile, alla luce del successo nel 1978 de Il Cacciatore e Tornando a casa e nel 1979 di Apocalypse Now. La guerra in Vietnam è stata celebrata da ben tre capolavori e Stone dovrà attendere quasi dieci anni prima di poter tornare su entrambi i progetti.


Al Pacino in Scarface


E’ sempre Martin Bregman a venire in suo aiuto, proponendogli la scrittura del remake di Scarface, celebre gangster movie degli anni ‘30 diretto da Howard Hawks. La sceneggiatura  dell’ascesa e caduta di un criminale stavolta è ambientata in Florida e vede al posto di un italo americano un cubano. Alla regia c’è Brian De Palma, reduce dal successo di Vestito per uccidere, mentre nel ruolo principale è scritturato Al Pacino. Le riprese sono tormentate, i litigi tra De Palma e Pacino epici, ma il risultato al botteghino è clamoroso.

Nel 1986 Stone riesce a tornare alla regia con il copione di Salvador. Ambientata durante la rivoluzione sandinista, la storia ha come protagonista un cinico fotoreporter inviato in Sudamerica per scrivere sul conflitto civile. Il producer Gerald Green investe sul film tra mille difficoltà, consentendo al suo autore di guadagnarsi una nuova nomination. Il ritratto che Oliver Stone dà di James Woods, il protagonista del film, è quello, impietoso, di un attore pavido, pieno di idiosincrasie.
Il successo di Salvador, candidato a tre Oscar, consente al regista di riprendere in mano la sceneggiatura di Platoon. Il film, prodotto da Arnold Kopelson, è girato in 57 giorni nelle Filippine con un cast di attori sconosciuti. Nella parte del giovane protagonista e narratore Chris Taylor (vero e proprio alter ego di Oliver Stone) c’è Charlie Sheen, mentre nella parte del buon soldato Elias, la faccia innocente dell’America, c’è Willem Dafoe. Il perfido Barnes è interpretato invece da Tom Berenger.
Fin dalla prima uscita Platoon riscuote un unanime successo di critica e di pubblico, trionfando nell’edizione 1987 degli Oscar con quattro statuette, tra le quali quelle di Miglior Film e di Miglior regia per lo stesso Stone.


Platoon


Il contraddittorio comportamento di Oliver Stone con Hollywood e la stampa specializzata ha sollevato numerose perplessità nel corso degli anni. Sebbene nel libro l’autore non approfondisca troppo il suo uso di droghe (fatta eccezione per il ricordo lisergico legato alla premiazione avvenuta ai Golden Globe del 1978) o le sue avventure sessuali (al contrario scrive delle sue ex mogli con calore e rispetto), egli non nasconde nemmeno i suoi eccessi. "Sì mi sono anche ubriacato a Hollywood e drogato in pubblico, con un comportamento stupido e immaturo", scrive in un passaggio sorprendente.

La sua decisione di terminare il libro durante la fatidica notte degli Oscar del 1987 è brusca: vorremmo saperne di più sui suoi lavori successivi, ma è evidente che Oliver Stone in questa prima parte si è voluto concentrare sulla sua ascesa a Hollywood e lo ha fatto con grande sincerità mostrandosi vulnerabile, introspettivo, tenace e, spesso inconsolabile.


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