martedì 26 maggio 2020

Star Wars. 40 anni dall'uscita de L'impero colpisce ancora

LA NASCITA DI UN MITO CINEMATOGRAFICO
Immaginate un ragazzo di 16 anni che in un pomeriggio freddo e piovoso di novembre del 1977 attraversa tutta Roma a bordo della sua vespa special 50 per andare a vedere un film di cui si parla da mesi sui giornali e che finalmente è uscito in Italia. Il ragazzo è accompagnato dal suo migliore amico e dopo aver percorso circa 15 km arriva al cinema Ritz (all’epoca una delle sale più grandi della capitale, ora trasformata in un supermercato) ed entra a spettacolo iniziato. 
I due amici entrano nella sala buia accompagnati dalla maschera e sullo schermo vedono due androidi in mezzo al deserto che bisticciano tra loro. Non c’è traccia di attori umani e la scena prosegue così per 5 minuti abbondanti. Gli amici si guardano perplessi fino a quando uno dei due esclama: “Ma che caspita di film è questo?!” 
La pellicola era Guerre Stellari e alla fine della proiezione la percezione dei due amici mutò in una consapevolezza istintiva di avere appena visto qualcosa di completamento nuovo e diverso. Solo un anno prima di Guerre stellari era uscito La fuga di Logan, i cui effetti speciali, alla luce delle innovazioni tecniche di Star Wars, apparivano totalmente obsoleti. In Star Wars, infatti, gli effetti speciali ottici e meccanici erano utilizzati magistralmente. Faceva poi capolino per la prima volta il Dolby Surround, avvolgente e potente, ma tutto il film era fresco e innovativo dal punto di vista del linguaggio, pur narrando archetipi già abbondantemente messi in scena dal cinema americano: la centralità della famiglia, il ritorno dell'eroe, le origini del mito. Il successo fu clamoroso anche in Italia e qualche giorno dopo in classe tutti parlavano di Luke Skywalker e Leia, di Dart Vader (da noi tradotto Darth Fener) e Han Solo. 
Dovettero passare 3 anni per ritrovare i personaggi amati in un sequel, a sua volta divenuto leggendario: The Empire Strikes Back-L'impero colpisce ancora.

Il Poster del film


LA LEGACY
Quando il 21 maggio del 1980, esattamente 40 anni fa, The Empire Strike Back fece il suo esordio nelle sale americane il film non era ancora conosciuto come l’episodio V della saga, capitolo centrale di una legacy composta da nove film, suddivisi in tre trilogie. 
George Lucas non era ancora l’autore ossessivo che una quindicina d’anni dopo realizzò le edizioni speciali dei primi tre capitoli, modificate digitalmente, aggiungendo nuovi effetti speciali, nuovi personaggi e dialoghi aggiuntivi per cercare di dare una continuity narrativa che legasse la prima trilogia con i nuovi tre episodi, rispettivamente La minaccia fantasma, L’attacco dei cloni e La vendetta dei Sith
Alla fine degli anni ‘70 Lucas non si era trasformato ancora nel business man preoccupato soltanto di aumentare i profitti immaginando spin-off, a volte incompatibili dal punto di vista narrativo con i film pre esistenti, coinvolgendo nella discutibile impresa svariati registi con visioni contraddittorie dell’universo Star Wars. 
Guerre stellari è ormai un brand della Disney che cerca di rimpinguare il portafoglio con mere operazioni di marketing ma The Empire Strikes Back, rappresenta ancora il lato più naif e affascinante della saga.

IL FILM
Il secondo capitolo di Star Wars sviluppava la trama e le relazioni interpersonali tra i personaggi in un copione abilmente scritto dalla celebre sceneggiatrice Leigh Brackett, autrice di Un dollaro d’onore di Howard Hawks e Il lungo Addio di Robert Altman, e da un giovane Lawrence Kasdan, che poi passerà alla regia prima con Brivido caldo e poi con Il grande freddo
Il sequel dimostra una compattezza narrativa superiore all’archetipo. In particolare, i rapporti tra Luke e sua sorella Leia sono tessuti con minuzia, è introdotto il personaggio di Yoda, fondamentale nella prosecuzione della saga, e in un colpo di scena clamoroso si rivela il vero rapporto tra Luke e Darth Vader. Tutto in 127 appassionanti minuti, diretti da Irvin Kershner (autore nel 1978 del thriller di successo Occhi di Laura Mars con Faye Dunaway) con l’aiuto dietro le quinte di Lucas. Quest’ultimo, infatti, scottato dalle innumerevoli difficoltà produttive, tecniche ed editoriali, incontrate nella realizzazione di Star Wars, si era ripromesso di non dirigere mai più un film, preferendo gestire le sue opere come produttore. Una promessa peraltro infranta con il ritorno dietro la cinepresa, avvenuto nel 1999 con La minaccia fantasma

Darth Vader e Luke Skywalker


SERIALIZZAZIONE
Il primo Star Wars fu realizzato senza sapere che avrebbe dato il via a numerosi seguiti. Al contrario, date le vicissitudini incontrate durante le varie fasi di realizzazione, tutti pensavano ad un sicuro insuccesso. E invece, contro ogni aspettativa, il film si rivelò un classico e tirò una linea, non solo metaforica, tra il vecchio e il nuovo cinema. Nulla, infatti, fu più la stessa cosa a Hollywood dopo Guerre Stellari
Il secondo capitolo era invece pensato come parte di una trilogia e presentava numerose sfide. L’impero colpisce ancora, infatti, ha una narrazione senza un vero inizio né una fine, e partiva dal presupposto che il pubblico avrebbe seguito i personaggi e gli eventi anche in futuro. E’ il primo esempio quindi di serializzazione del cinema, un modo di pensare ai film che Lucas adotterà anche con Raiders of The Lost Ark - I predatori dell’arca perduta - prodotto l’anno successivo e diretto da Steven Spielberg. Quest’ultimo si ispirava ai vecchi serial d’avventura e molti critici, Vincent Canby del New York Times su tutti, paragonò il film ad un fumetto. E non era un complimento. 
Ora che la serializzazione è divenuta un vero e proprio standard narrativo è più facile apprezzare il modo in cui Lucas e i suoi collaboratori colsero i vantaggi di aprire L’impero colpisce ancora con una forte scena d’impatto - in media res - già utilizzata peraltro in Star Wars, e di chiuderlo con un cliffhanger. 

LA STORIA
La partenza de L’impero colpisce ancora è persino più dinamica del film precedente. Il cielo stellato, subito dopo il tradizionale commento scritto, è invaso dalle sagome minacciose di colossali Star Destroyer imperiali. L’aggressività estrema è la cifra della nuova pellicola: dramma e sviluppi tragici saranno uno dei punti ricorrenti della vicenda, nella quale i nostri eroi saranno sottoposti a violenze e sofferenze, privazioni e angosciose rivelazioni.  Han e Leia si rivelano i reciproci sentimenti e non mancano  le presenze freaks. Sul pianeta di ghiaccio di Hoth (le sequenze furono girate in Norvegia) troviamo Luke a cavallo di una bizzarra creatura, il tauntaun, a metà strada tra uno struzzo e un canguro. I due sono aggrediti da un wampa, un demone delle nevi che stordisce Luke e lo porta nella sua caverna.
Subito dopo assistiamo a una spettacolare battaglia tra i mastodontici camminatori imperiali e le installazioni dei ribelli. La magnifica sequenza di guerra fu filmata con modellini in stop motion, una tecnica inventata negli anni ‘50 dal genio degli effetti speciali Ray Harryhausen.
C’è poi il pianeta di Dagobath, fatto di vegetazione lussureggiante e paludi, dove vive il maestro Yoda, una sorta di elfo verdastro dalle orecchie appuntite, che diventerà centrale nell’universo di Star Wars. Yoda è il maestro Jedi di Luke, colui che addestrerà il giovane, indicandogli come utilizzare la forza a fin di bene. Il pupazzo fu realizzato e animato da Frank Oz, il geniale inventore, insieme a Jim Henson, dei Muppets. Nella versione originale Oz presta anche la sua voce allo gnomo, con un vocabolario forbito ma strampalato.
Tutti gli eventi della pellicola portano allo straordinario finale. Prima Han Solo è fatto prigioniero dal cacciatore di taglie Bobba Fett (altro personaggio mitico dell’universo lucasiano) poi è ibernato in un blocco di carbonite e nulla può Chewbecca per salvare il suo compagno.
Il climax finale è caratterizzato dallo scontro tra Luke e la sua nemesi, Darth Vader. Il pubblico sa che il Signore dei Sith è interessato a convincere il giovane ad associarsi a lui e al suo imperatore Palpatine. Ma perché Vader ha questo morboso interesse verso Luke? Disarmato con un fendente della spada laser che gli amputa una mano, Luke assiste a una rivelazione incredibile: dietro l’elmetto nero di Vader si cela Anakin Skywalker, suo padre.
In questo modo uno dei riferimenti più evidenti della tragedia greca è innestato su una storia fantasy. Lo scontro con la figura paterna rievoca, infatti, le vicissitudini del re Edipo, che dall’omonima tragedia di Sofocle ha percorso tutta la storia del pensiero occidentale.

Luke e Leia - C3PO R2-D2

LA COSTRUZIONE DI MONDI
Più realistico di Guerre Stellari, L’impero colpisce ancora è dunque molto distante dal tono fanciullesco de Il ritorno dello Jedi, ultimo capitolo della prima trilogia. 
Avere concepito la pellicola come un incessante inseguimento nella galassia offrì a Lucas la possibilità di immergersi nella costruzione di un mondo prima che questo aspetto diventasse un'ossessione nei prequel. The Empire Strikes Back mette in scena la sua storia in ambienti meravigliosamente concepiti: dagli estremi sub-artici di Hoth, che richiamano il deserto siberiano di Dersu Uzala di Akira Kurosawa, alle fetide paludi di Dagobah, dove vive il secolare maestro Yoda; dalla lucentezza art deco di Cloud City sul pianeta Bespin, che sembra riflettere l'anima lucida, bella e opportunistica di Lando Calrissian (Billy Dee Williams) alle cupe catacombe di un asteroide gigante, dove Han, Leia e Chewbecca si nascondono dopo che la Millennium Falcon è esplosa come una vecchia Buick.

LE RIPRESE
La lavorazione del film fu caratterizzata da molte disavventure. Innanzitutto radunare il cast fu un’impresa molto faticosa, come ricorda lo storico del cinema John Baxter nel suo libro George Lucas. La biografia, edito da Lindau. Mark Hamill e Carrie Fisher erano già sotto contratto ma Harrison Ford no. Si rese dunque indispensabile trovare un accordo con l’attore, che nel frattempo era divenuto una star, che riguardò il compenso e la promessa di avere una parte più complessa rispetto al primo episodio. Anche Anthony Daniels e Dave Prowse, rispettivamente C3-PO e R2-D2, si lamentarono per come erano stati trattati durante la promozione di Guerre Stellari e ottennero pertanto di avere dei credits più ampi. Lucas poi era ossessionato dal pensiero di essere accusato di razzismo e reclutò per la parte dell’avventuriero Lando Calrissian, l’amico di Han Solo, l’attore afroamericano Billy Dee Williams.
I set furono costruiti in Inghilterra, nel febbraio del 1979, presso gli Elstree Studios,. Ci furono subito enormi problemi di organizzazione dovuti al ritardo cronico di lavorazione accumulato da Stanley Kubrick per il suo Shining. I set dell’Overlook Hotel, infatti, occupavano gran parte degli studios che sarebbero dovuti essere utilizzati da L’impero colpisce ancora. Tuttavia, non avendo rispettato la tabella di marcia, Kubrick era ancora lì. Si accumularono pertanto dei ritardi che portarono la lavorazione dai 100 giorni previsti a 175. 
La sequenza iniziale fu girata in Norvegia, a Finse per l’esattezza, una località sperduta nel nord del paese dove, in condizioni climatiche estreme, il cast dovette allestire le principali sequenze di battaglia, poi completate con i modellini in studio. Il regista Irvin Kershner a 55 anni non era in forma smagliante e uscì molto provato dall’esperienza. Terminate le riprese in esterni, il film si spostò di nuovo a Elstree dove fu costruito il pianeta Dagobath nel quale Mark Hamill compie il suo addestramento con lo Yoda. Queste scene portarono a una crisi nervosa Hamill, appena divenuto padre, che non sopportava di recitare davanti a un bidone della spazzatura, poi sostituito al montaggio dal pupazzo meccanico ideato da Frank Oz. Nel frattempo, Harrison Ford e Carrie Fisher se la spassavano in hotel facendo le ore piccole e prendendosi delle sbronze colossali. Dopo l’improvvisa morte di John Barry, regista della seconda unità, Kershner fu affiancato, seppur in maniera discreta, dallo stesso Lucas che intervenne pesantemente al montaggio, realizzando una versione del film tutta d’azione, poi accantonata dal montatore Paul Hirsch che costruì la versione definitiva, più cupa e distesa.

Il Poster originale di Star Wars


EFFETTI SPECIALI
Gli effetti speciali furono realizzati dalla Industrial Light and Magic, la società costituita da Lucas per offrire nuove possibilità ai tecnici degli effetti speciali. Quest’ultimi, capitanati da Brian Johnson e Richard Edlund, confermarono la ILM come la più importante società del mondo specializzata in effetti speciali. Memorabile è la battaglia iniziale sulla neve per la quale, come già detto, si utilizzò la tecnica della stop motion, pianificata meticolosamente, prima attraverso gli storyboard, poi attraverso le animazioni. 124 di quelle immagini, stampate su pellicola, delinearono l’azione in una nuova tecnica, chiamata Animatics. 

BLOCKBUSTER
Il risultato di questo complesso lavoro ripagò tutte le amarezze accumulate nei lunghi mesi di lavorazione. Al suo esordio sugli schermi, il 17 maggio 1980, divenuto oramai dopo Guerre Stellari l'inizio della stagione estiva cinematografica, il film incassò 547,897,454 dollari in tutto il mondo.
Il primo blockbuster della storia hollywoodiana fu Jaws - Lo squalo ma Star Wars e il suo sequel furono i primi film che stabilirono lo standard per il decennio seguente. 
Dopo The Empire Strikes Back, la saga di Star Wars sarebbe degenerata nello sdolcinato Il ritorno dello Jedi, e non avrebbe più avuto un film allo stesso tempo divertente e complesso. Il lirismo di The Last Jedi, secondo capitolo della terza trilogia, diretto da Ryan Johnson, è forse è il tentativo più riuscito di avvicinarsi alle atmosfere irripetibili di The Empire Strikes Back.

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sabato 23 maggio 2020

Cinema Vs Streaming. I cinema sono chiusi, ma la magia primordiale del grande schermo resta intatta.

Sul The Guardian è apparsa pochi giorni fa una dichiarazione d’amore al cinema firmata da Walter Murch. Per chi non lo sapesse, Murch è uno degli editor più importanti del cinema. Al suo attivo ha 3 Oscar, ottenuti per il suo lavoro in Apocalypse Now e Il Paziente inglese (The English Patient). Murch, inoltre, ha editato una decina di anni fa la versione integrale de L'infernale Quinlan (Touch of Evil) di Orson Welles. Oltre ad essere un’artista il montatore è anche un raffinato teorico, autore di In un batter d’occhi Una prospettiva sul montaggio cinematografico nell’era digitale, edito da Lindau, uno degli studi più affascinanti sulla potenza espressiva del montaggio.
Per Murch il cinema è senza dubbio un mezzo di massa e la fruizione di un film è connessa a un rito collettivo che allo stesso tempo è anche intimo. Per Murch ci sono quattro modi in cui il film tenta di coniugare l’esperienza collettiva con quella individuale gestendola meglio di qualsiasi altra forma d’arte. E' importante apprezzare tutti questi modi di fruizione per capire appieno cosa abbiamo perso con la chiusura forzata delle sale.

Apocalypse Now


1 UNA VITA IN PERFETTO EQUILIBRIO
Quando un film crea un collegamento con noi, parla alla testa, al cuore e alle viscere. Ognuno di questi modi di pensare - intellettuale, emotivo ed istintivo - viene affrontato direttamente, quindi intrecciato e reso coerente. Ci viene servito qualcosa che tutti noi desideriamo, ma raramente sperimentiamo: la nostra vita sembra essere in miracoloso equilibrio. Quando un film riesce a comporre un mondo coerente, che di solito non corrisponde alla vita normale, adempie a una funzione sociale unica, quasi spirituale, aiutando le persone a risolvere le proprie contraddizioni.

2 SEGRETI CONDIVISI
Il pubblico è spesso sorpreso dall'apparente intimità di un film con i propri segreti interiori. Questo è il risultato del lavoro del regista che decide cosa mettere e cosa lasciare fuori nel suo lungometraggio. Se un film mostra troppo, il pubblico deve solo sedersi e prendere quello che gli viene mostrato sullo schermo. In tal modo però non avrà un legame emotivo con la storia e con i personaggi. Ma se il racconto resta incompleto, nella giusta misura, ciascuno utilizzerà la propria immaginazione per trasformare il parziale in completo. Questo è il motivo per cui le persone spesso hanno punti di vista diversi vedendo lo stesso film. Ognuno reagisce in maniera differente a ciò che ha visto. John Huston diceva: "I veri proiettori sono gli occhi e le orecchie del pubblico".

3 VOYEURISMO AUTORIZZATO
Mentre guardiamo un film possiamo guardare negli occhi le persone che ci appaiono belle, brutte, potenti, spaventose e interessanti. Nella vita quotidiana, tale accesso ravvicinato non è spesso disponibile. Le persone sullo schermo, tuttavia, sembrano non sapere che li stiamo guardando, il che rende il tutto ancora più interessante. Basterebbe che spostassero gli occhi di qualche grado, guardassero l'obiettivo e noi saremmo scoperti. Ma fino ad allora, possiamo guardarli con un piacere voyeuristico mentre i loro pensieri e le loro emozioni passano come raggi di sole sui loro volti. 

4 IL DISAGIO DEGLI ESTRANEI
Negli ultimi due mesi abbiamo visto i film solo a casa. Ma un film nasce per essere visto al cinema in un momento prestabilito, al buio, alla presenza di altri estranei attratti come noi da questo momento. Nelle giuste circostanze, una proiezione in sala migliora l'esperienza del cinema. Quando lasciamo le nostre case e affrontiamo un po’ di disagio (il parcheggio, il trasporto pubblico) e in questi tempi incerti anche dei rischi, e ci riuniamo in un cinema in un momento specifico, siamo pronti a vedere il film in un modo più ricettivo rispetto a quando lo visioniamo a casa in  streaming. 
Tecnicamente, la qualità di un film in casa può ora eguagliare o persino superare la qualità di un multiplex. Ma ciò che la visione da casa non può mai fare è fornire un'esperienza comune alla quale ci sottomettiamo volentieri. Nelle migliori circostanze, quell'esperienza può espandere la nostra coscienza, acuendo i nostri sensi nell'intimità del cinema. E quando siamo al buio, con molte altre persone, stiamo più attenti ai piccoli segnali del pubblico che scateneranno risate, urla o lacrime di gruppo. A casa, da solo o con pochi altri, questi segnali sono in proporzione ridotti. Più è vasto il pubblico, più è probabile che qualcuno inizi a ridere prima e quella risata scatenerà tutti gli altri. Gli esseri umani si sono riuniti al buio, ascoltando storie, dall'invenzione del linguaggio. Fa parte di ciò che siamo e ciò che ci lega gli uni agli altri. L'esperienza cinematografica consiste nel ricreare questo incontro primordiale. 

La domanda finale che Murch si fa è se quando il mondo sarà uscito da questa emergenza il cinema tornerà come prima. E’ probabile, anche se non in ogni dettaglio: il blocco universale è stato uno shock senza precedenti. Tuttavia il bisogno umano di lasciare l'isolamento di casa e di riunirsi nell'oscurità illuminata dai raggi di un proiettore sarà una motivazione irresistibile per la riapertura dei cinema.

Tra i film di Walter Murch ricordiamo la trilogia di The Godfather, The Conversation, Apocalypse Now, American Graffiti e The English Patient.


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mercoledì 20 maggio 2020

La storia a colori. Dal bianco e nero al colore: la storia dell’ultimo secolo riprende vita con le fotografie di Marina Amaral.

1918. Paziente in barella

Un paziente è disteso su una barella; la sua faccia pallida sporge da sotto una coperta verde, ha gli occhi chiusi. Due donne in uniforme sorreggono la barella e indossano delle mascherine. Sembra una bella giornata: il sole splende, il cielo è azzurro. Ma questa non è un’immagine felice. 
La fotografia è stata scattata in una stazione di ambulanze a Washington DC. Potrebbe risalire a un paio di settimane fa se non fosse per le uniformi e la barella, due dettagli che ci rivelano come quell’immagine appartenga a più di un secolo fa, al 1918 per l’esattezza, durante l'epidemia di influenza spagnola, che uccise milioni di persone. 
L’autore di quella foto è sconosciuto ma l'immagine in bianco e nero è stata recentemente "colorata" da Marina Amaral, una giovane fotografa brasiliana che si è specializzata nel colorizzare iconiche immagini in bianco e nero del passato. 
Il suo libro più conosciuto è The Colour of Time: A New History of the World, 1850-1960, un volume di circa 450 pagine ove sono disponibili le straordinarie immagini che l’artista con pazienza certosina ha colorizzato. Si tratta di fotografie che partono dal 1860 e celebrano alcuni dei momenti più importanti della storia contemporanea - dalla battaglia di Gettysburg a Hiroshima, da Lincoln a Churchill. 
Marina Amaral ha utilizzato tecniche digitali, colorando 200 immagini che abbracciano oltre un secolo di storia. Il risultato è incredibile poiché trasforma immagini che ormai sembravano appartenere a un passato remoto in pagine di vita attuale. Statisti e soldati, i volti di centinaia di persone comuni, riprendono vita di fronte ai nostri occhi. Le immagini sono organizzate in 10 capitoli cronologici e ogni immagine è accompagnata da 200 brevi ma esaustive didascalie scritte dallo storico Dan Jones che ci raccontano le storie che stanno dietro quelle immagini, offrendo così una straordinaria prospettiva di un passato ancora molto vicino.

Il giovane Winston Churchill

Il successo del volume nei paesi anglosassoni ha stupito l’autrice che ha appena realizzato un secondo libro The World Aflame, di prossima uscita. Stavolta le storie si concentrano nel periodo che va dal 1914 al 1945. Ci sono Giorgio V a cavallo, il giovane Winston Churchill e poi eventi importanti: la vita in trincea, la tregua di Natale, la Grande Depressione, la carestia, il fascismo, Hitler e Mussolini. Guerra, genocidio e distruzione, la bomba atomica, la liberazione; anche un po’ d'amore. Tutto colorato digitalmente.
Amaral afferma che il recente aumento del populismo e dell'estrema destra in molti paesi (compreso il suo) fanno parte di ciò che motiva il suo lavoro. La ragazza, che ha 26 anni e vive con sua madre e sua nonna, non è stupita dal modo in cui Bolsonaro, il populista presidente brasiliano sta affrontando l’emergenza legata al Covid 19. 
Bolsonaro ha respinto il coronavirus definendolo un’isteria dei media, ha evitato il distanziamento sociale, commettendo degli errori che secondo Amaral costeranno la vita a molte persone. 

La storia di come Marina Amaral è arrivata a colorare le fotografie ha molto a che fare con il 21° secolo. All’età di 12 anni la ragazza aveva un blog e voleva ravvivarlo con un po’ di grafica ma non sapeva come fare. E’ stato così che ha iniziato a vedere dei tutorial su YouTube, imparando a utilizzare Photoshop, il popolare programma di fotoritocco. 
Dopo la laurea in relazioni internazionali l’artista ha continuato il suo hobby fino a quando, dopo essersi imbattuta in una collezione online di fotografie colorizzate della seconda guerra mondiale, ha deciso di provare lei stessa. I suoi primi risultati sono stati pubblicati su Facebook e su Twitter dove ha ottenuto subito un vasto consenso. E’ in questo modo che ha incontrato lo storico Dan Jones che l’ha contattata dopo aver visto una fotografia di Lewis Powell, uno degli uomini giustiziati per avere partecipato al complotto per uccidere Abramo Lincoln, trasformato in una sorta di James Dean del passato. 

Bambino ad Auschwitz

Si può definire arte quella di Amaral? La ragazza pensa di sì. In diverse interviste ha spiegato come, prima di iniziare il suo lavoro, analizzi in profondità le immagini, spesso con l’aiuto di storici ed esperti, per cercare di capire il contesto nel quale è nata una fotografia. Il processo di colorizzazione può durare diverse ore, dipende dalla complessità dell’immagine. 
A volte il risultato somiglia molto a una foto scattata un paio di mesi fa piuttosto che secoli addietro. 
Le più potenti delle 200 fotografie del nuovo libro ritraggono Mussolini a Piazzale Loreto, lo sbarco in Normandia e un bambino assassinato ad Auschwitz. L’immagine è molto potente in bianco e nero, ma a colori si possono vedere le labbra che sanguinano dopo che il ragazzo è stato picchiato da una guardia. Si può davvero vedere la paura nei suoi occhi, ma si può anche percepire il suo coraggio. Questa fotografia fa parte di un progetto speciale in cui Amaral è coinvolta, Faces Of Auschwitz, una collaborazione con il Memoriale e il Museo di Auschwitz-Birkenau, per il quale sta colorando le fotografie tratte dall'archivio del museo. 
Amaral sa che la colorazione di immagini si presta a forti critiche soprattutto da parte di coloro che vedono questa tecnica come un sacrilegio. L'intenzione dell’autrice però è quella di fornire l’opportunità di vedere la storia in una prospettiva diversa.

Potete vedere il portfolio di Marina Amaral sul suo sito web https://marinamaral.com/
Vi ricordo i volumi di Marina Amaral:
Entrambi sono disponibili su Amazon.

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domenica 17 maggio 2020

Google e Amazon a confronto. Il racconto di due divisioni Hardware.

Secondo una fonte del sito The Information, Google soffre di un caos operativo che avrebbe portato il capo della divisione hardware Rick Osterloh a prendere le distanze da decisioni su prodotti di cui lui stesso è il responsabile. Un comportamento che ha portato alle dimissioni di Mario Queiroz, il general manager del progetto Pixel, e Marc Levoy, il capo della divisione di fotografia computazionale.

Le vendite del Googlefonino, il Pixel 4, negli Stati Uniti non sono andate bene e in Europa  anche peggio. Per Google lo smartphone doveva essere l’equivalente dell’iPhone per Apple ma le cose finora non hanno funzionato granché. Rick Osterloh punta il dito su quelli che sono stati i due problemi principali dei Pixel 4: l’autonomia, reputata dalle persone troppo scarsa, e i bug, eccessivi per una azienda che fa software. Ma forse anche con una maggiore autonomia e senza bug il Pixel 4 non avrebbe avuto i risultati che Osterloh sperava. Il problema è che la vera forza di Google sta nel suo sistema Android e nelle sue app. La gente non è disposta a pagare prezzi esorbitanti per uno smartphone targato Google quando può prendere un’altra marca a prezzi molto più contenuti che fa le stesse cose e ha un’autonomia più ampia.


Google

Viceversa Amazon ha appena lanciato una nuova versione del suo tablet Fire Hd in sordina, senza troppi clamori. In definitiva solo Amazon, Samsung e Huawei sembrano ancora credere al tablet Android, abbandonato dalla stessa Google. La cosa curiosa è pensare a come il sistema Android sia così diffuso sugli smartphone quanto in disuso sui tablet. Il motivo per il quale Amazon, dopo avere abbandonato il settore degli smartphone (ricordiamoci il fallimento del suo Fire Phone), insiste sulla produzione di tablet risiede nel suo modello di business. Il tablet, infatti, serve per veicolare la vendita degli ebook e di tutti gli altri servizi, compreso quello di Amazon Prime. L’obiettivo è tenere ancorati i consumatori nel proprio ecosistema. Tuttavia Amazon ha anche creato altri eccellenti prodotti, basti pensare agli altoparlanti intelligenti (Alexa), agli auricolari economici, alla Fire tv stick, alle telecamere intelligenti e ai router Wi-Fi.
I tablet Fire sono molto facili da realizzare e dal momento che non esiste concorrenza nel settore la società di Jeff Bezos è riuscita ad accaparrarsi un buona fetta di mercato. Inoltre, anche il primo Echo, Echo Auto, Echo Show e persino il primissimo Kindle erano poco più che prototipi al loro primo tentativo. Soltanto dopo un paio di anni questi sono diventati efficienti e affidabili. Il punto però è che non sembra esserci molto interesse dal punto di vista mediatico sull’hardware Amazon che esiste, lo abbiamo detto, per supportare i servizi, segnatamente Prime Video, Kindle e Alexa. 

Rick Osterloh

L’hardware di Google, invece, genera molte aspettative e di conseguenza anche molte delusioni. Nonostante il software Android, la società sembra incapace di creare un telefono che possa conquistare una consistente quota di consumatori. Intendiamoci, i Pixel funzionano molto bene ma occupano ancora una minima fetta del mercato. Anche i prodotti Nest vanno bene, e la stessa cosa si può dire per i suoi altoparlanti intelligenti. Tuttavia è molto difficile per il marketing spiegare per quale motivo vengono realizzati questi prodotti. All’inizio Nexus fu creato per testare Android, Chromecast per vedere se l’ecosistema funzionava sulle Tv come decoder. In entrambi i casi però i due prodotti non sono rimasti al centro del business di Google. Quest’ultima di recente ha affermato che l’hardware è destinato a divenire un vero e proprio centro di profitto e in teoria questo ha senso. Diversificare i flussi di entrate è vitale per una società come Google. La differenza con Amazon, però, è che mentre quest’ultima realizza hardware a basso costo integrati nel suo ecosistema, Google realizza i suoi principali introiti con la pubblicità. Siamo al sesto anno dalla fondazione del reparto hardware e ancora non è stato realizzato un prodotto di successo, anche se con il prossimo PIxel 4a arriveremo al rilascio del sesto smartphone.
La domanda pertanto resta: a cosa serve l’hardware Google?

Sede Amazon


La verità è che mentre per Amazon non è essenziale avere successo con i suoi prodotti hardware per Google questi dovrebbero essere fondamentali, dato che ruotano intorno al sistema operativo Android e, in particolar modo, ai servizi legati all’intelligenza artificiale dell’assistente di Google. In sostanza, quando non si è su un sito web le esperienze della maggior parte delle persone sono mediate dai tablet Apple o dagli smartphone Samsung.
E’ probabile che Google stia tenendo in vita la sezione hardware aspettando il momento in cui sarà necessario accelerare la produzione, qualora uno dei suoi competitors dovesse entrare in crisi. Ma è anche possibile che per il momento Google voglia solo assicurare alla nicchia di persone che possiedono i suoi apparecchi la migliore user experience possibile. Da possessore di un Pixel 3a posso assicurare che in questo caso la fusione tra hardware e software proprietario funziona a meraviglia.

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domenica 10 maggio 2020

L’uomo Ragno in Italia compie 50 anni. Smart Working, vantaggi e svantaggi. Babylon Berlin, la serie tedesca è giunta alla sua terza stagione.


L’UOMO RAGNO COMPIE 50 ANNI IN ITALIA
Oggi la vendita di fumetti è relegata ad un pubblico sempre più di nicchia in negozi specializzati dove si vendono a prezzi stratosferici graphic novel di solito cupe e pessimiste.
C’è stato un tempo però, 50 anni fa, il 30 aprile del 1970 per l’esattezza, in cui i fumetti si compravano in edicola e ogni albo riservava sorprese infinite e un brivido di trasgressione. Accadde in particolare con l’avvento nell’editoria italiana di una casa editrice spregiudicata che per la prima volta decise di pubblicare in Italia i fumetti americani nel formato originale, cioè quello verticale, un formato fino a quel momento sconosciuto nel nostro paese e, cosa ancora più importante, di pubblicare ogni 15 giorni le storie, rispettando l’esatta cronologia con la quale erano state concepite.
Se poi aggiungiamo che queste storie erano ideate da un certo Stan Lee e dalla Marvel si capirà quanto innovativo fosse quel progetto. La casa editrice in questione era la Corno editore. E’ a lei che dobbiamo l’avvento in Italia dell’Uomo Ragno, oggi conosciuto come Spiderman, e di tutto l'universo della Marvel. 
L’arrivo di questi super eroi in calzamaglia, tutt'altro che invincibili e che mostravano delle problematiche interiori, fu davvero una ventata d’aria fresca nel mercato dell’editoria di settore dove fino a quel momento avevano imperversato i fumetti della Bonelli, in particolar modo il mitico Tex Willer e Zagor, lo spirito con la scure.
Ricordo in particolare l’eccitazione provata nel leggere il primo numero dell’Uomo ragno (che conservo ancora imbustato). Quell’imbranato di Peter Parker era proprio uguale a me ma riusciva a riscattarsi con i suoi super poteri, anche se questi non erano sufficienti ad impedire che il suo adorato zio Ben venisse ucciso da uno sciagurato rapinatore o che la sua amata Gwen fosse uccisa dal Goblin, in uno degli episodi più sconvolgenti mai scritti. 
Ma vediamo com’è nata la leggenda di Spider-Man che proprio in questi giorni ha compiuto 50 anni dal suo avvento in Italia.
Correva l’anno 1962 e l’allora piccola casa editrice Marvel Comics aveva appena iniziato a pubblicare i suoi supereroi con superproblemi, nati dalla fervida immaginazione di Stan Lee e dell’illustratore Jack Kirby. Dopo i significativi successi de I fantastici 4, l’incredibile Hulk e il mitico Thor, Lee decise che era giunto il momento di proporre una serie che avesse come protagonista un adolescente. La sua idea de l’Uomo Ragno inizialmente non piacque al suo editore Martin Goodman ma il sorridente Stan andò dritto per la sua strada e fece uscire di soppiatto la prima avventura del suo nuovo eroe nel numero di agosto di una collana che, fatalità, era destinata a chiudere proprio quel mese: Amazing Fantasy. I disegni furono affidati a Jack Kirby ma Stan, non soddisfatto del risultato delle prime vignette, passò la matita a un illustratore timido e introverso come il super eroe chiamato ad illustrare: Steve Ditko. A sorpresa, in meno di un anno, l’Uomo ragno diventò il maggior successo della Marvel che decise di dedicare un intero mensile dell’arrampicamuri. Il resto è storia: nel luglio del 1964 apparve per la prima volta il nemico numero 1 di Spider-Man, Goblin, il folletto verde, destinato a divenire la sua nemesi.
Torniamo adesso in Italia. Quello della casa editrice diretta da Andrea Corno non fu un esperimento inedito, perché qualche supereroe prima di allora si era già visto dalle nostre parti: Linus, ad esempio, aveva pubblicato un paio di storie dei Fantastici Quattro. Le testate della Corno furono però qualcosa di differente, che fece scuola in Italia sul modo di trattare i fumetti dei supereroi, dimostrando in particolare di rispettare più di altri concorrenti il materiale originale.
Come dicevo, la Corno pubblicò gli episodi in ordine cronologico cercando di mantenere i nomi originali o al limite di adattarli, con calchi e traduzioni letterali (Uomo Ragno, Dottor Destino, Fantastici Quattro, il mitico Thor). Solo Daredevil divenne Devil, da una parte per conservare nel nome il legame con il diavolo, dall’altra perché la traduzione italiana di scavezzacollo non avrebbe funzionato.
Fu anche data importanza agli autori, che firmavano le storie in prima pagina. Sembrano tutte cose scontate in questi giorni in cui filologia è diventata una sorta di mantra per tutte le case editrici.
I lettori della Corno, invece, erano guidati all’interno del mondo Marvel, introdotti con pazienza  nella complessa ragnatela di relazioni interpersonali e di collegamenti tra le storie intrecciata da Stan - il sorridente - Lee. 
Accanto a Corno c’era un certo Luciano Secchi, meglio conosciuto come Max Bunker, indimenticabile autore di Kriminal e soprattutto di Alan Ford, che affiancò l’editore per molti anni, salvo poi allontanarsi per seguire i propri progetti. 
Il primo numero dell’Uomo Ragno presentava le tre storie di esordio del supereroe, tutte a cura di Stan Lee e Steve Ditko, i due creatori del personaggio: quella di Amazing Fantasy 15, con la presentazione di Peter Parker, il morso del ragno, la morte di Zio Ben e la celebre frase «Da grandi poteri derivano grandi responsabilità». In allegato all’albo, un ormai rarissimo poster. Come seconda storia trovò spazio il Dottor Strange, divenuto ora popolare dopo il film della Marvel ma che fino a pochi anni fa era considerato un eroe secondario nell’universo della casa delle idee. La copertina del primo numero italiano aveva una vignetta disegnata dai John Romita Sr., forse il disegnatore più amato dai fan dell’arrampicamuri, o perlomeno da me che all’epoca vissi come un lutto il passaggio delle matite da Romita a Gil Kane. Iniziava così l’età dell’oro della Corno. A L’Uomo Ragno seguirono L’incredibile Devil, I Fantastici Quattro, Capitan America, Il mitico Thor. Ogni testata pubblicava le storie del personaggio di copertina e aveva comprimari fissi in appendice, per rispondere al bisogno dei lettori italiani di fruire di albi più corposi. Chiuso il ciclo del Dottor Strange, Spiderman fu accompagnato da Ant-Man/Giant-Man, mentre Devil ebbe come compagni di viaggio prima Silver Surfer e poi Iron Man. A metà degli anni Settanta, i fumetti della Casa delle Idee erano uno dei pilastri su cui si reggeva l’Editoriale Corno, ma all’inizio del decennio successivo la favola di questa piccola casa editrice finì a causa di problemi finanziari e attriti tra Corno e Secchi. Quest’ultimo nel 1983 aprì la Max Bunker Press per pubblicare Alan Ford. Intanto, nel 1981, L’Uomo Ragno aveva chiuso, sostituito da una nuova pubblicazione, Il settimanale de L’Uomo Ragno. Tuttavia anche la seconda stagione del super eroe durò poco, per l’esattezza fino al febbraio del 1984. Dopo un breve passaggio alla Labor Comics, fu la Star Comics di Perugia, nel 1987, a riprendere la pubblicazione dell’Uomo Ragno – e a ruota di altri personaggi Marvel, con un approccio e una cura filologica che negli anni successivi sono stati raccolti da Marvel Italia prima e da Panini Comics poi.

SMART WORKING, SVANTAGGI E VANTAGGI
In questi mesi abbiamo assistito ad una rivoluzione nel mondo del lavoro. Se fino ai primi di marzo lo smart working era poco più di un termine cool con il quale rappresentare una condizione lavorativa relegata a una piccola comunità di privilegiati, con il coprifuoco causato dal coronavirus questo sistema di lavoro si è diffuso in maniera pervasiva. In due mesi l’Italia ha cercato di colmare un gap di vari anni rispetto ai paesi anglosassoni dove questa formula di collaborazione è stata già adottata con ottimi risultati. Milioni di italiani si sono alfabetizzati digitalmente, imparando a utilizzare le videocall e a effettuare le loro mansioni da remoto.
A causa dell'epidemia, i numeri in meno di due mesi sono diventati importanti: al ministero del Lavoro risultano attualmente 1.827.792 lavoratori attivi in modalità "agile". Si tratta di numeri probabilmente sottostimati perché non tutte le aziende hanno effettuato una corretta comunicazione al Ministero. Prima dell'epidemia erano solo 221.175 le persone che utilizzavano lo smart working. Vanno poi aggiunti i circa due milioni e mezzo di dipendenti della Pubblica Amministrazione. 
Con la fine della fase 1 molte aziende stanno valutando l’opportunità di estendere questa modalità di lavoro a molti dipendenti. I risparmi per le aziende sono evidenti, sia in termine di locazioni, che di banda, dotazioni hardware e software (spesso i dipendenti utilizzano le proprie postazioni), di luce elettrica, di buoni pasto e, in molti casi anche di maggiorazioni legate alle festività e agli orari notturni..
In effetti nel nostro Paese si ha una concezione dello smart working piuttosto distorta. Nei paesi anglosassoni, infatti, questa tipologia di lavoro è legata al raggiungimento dell’obiettivo da parte del dipendente, il quale può decidere se svolgere il proprio lavoro alcuni giorni della settimana anche al di fuori della propria sede aziendale.
Lo svolgersi delle proprie mansioni quotidianamente a casa non è dunque smart working, bensì telelavoro. 
Inoltre nello smart working è compito del datore di lavoro fornire la postazione informatica (Pc o notebook che sia) con tutti i relativi strumenti, e a quest' obbligo corrispondono anche alcuni poteri di controllo; nel caso  del telelavoro, invece, il lavoratore ha ampia facoltà di scelta su strumenti e modalità.
Lo smart working sarà anche al centro della fase 2 per evitare di affollare gli uffici e i mezzi pubblici: a incoraggiarne la prosecuzione c'è sia l'ultimo decreto del governo che il protocollo tra le parti sociali.
Il problema principale è rappresentato però da orario e straordinari. Molti dipendenti protestano (a ragione) poiché da un giorno all'altro si sono ritrovati impegnati quasi tutto il giorno, con uno spazio sempre più ristretto per la vita privata. Call a orari impossibili, anche nei giorni festivi, mail inviate nel cuore della notte. All’improvviso tutte le regole di convivenza sociale sono saltate scaricando sui lavoratori una serie di impegni pressoché continui. Ciò è esattamente l'opposto degli obiettivi che il lavoro agile si propone di raggiungere poiché dovrebbe prevedere una modalità più razionale che si concilia meglio con la vita privata. 
C’è poi un’altra differenza sostanziale. Se nello smart working è il lavoratore che decide orari e impegni del proprio lavoro, nel telelavoro è l’azienda a chiedere prestazioni lavorative notturne e festive. E da questo punto di vista molte aziende ci hanno marciato non riconoscendo questi diritti.
Il vero problema dello smart working è dunque legato anche al diritto del lavoratore a disconnettersi terminato l’orario di lavoro, senza essere assalito dai sensi di colpa se la domenica non legge le mail o non risponde a sollecitazioni pervenute su what’s app. Tutti questi problemi, compreso quello dei buoni pasto, sui quali si è accesa un’ulteriore polemica tra chi li considera dovuti e chi no, oppure il tema degli infortuni, dovranno essere affrontati con i contratti individuali o collettivi di lavoro.
Una cosa è certa: nessuno può restare sempre connesso.

BABYLON BERLIN 3 STAGIONE
E’ appena giunta a conclusione su Sky Atlantic la terza stagione di Babylon Berlin - ma tutti gli episodi sono disponibili on demand - la serie prodotta da Beta Film ambientata negli anni venti in una Berlino rutilante, dove accanto a cabaret dissoluti e una vita frenetica, affiorano minacciosi i simpatizzanti nazisti.
La terza stagione di Babylon Berlin riparte dalle tumultuose settimane che precedono il crollo del mercato azionario, il cosiddetto Black Friday.
I due protagonisti della serie sono ancora una volta il detective Gereon Rath e l’apprendista investigatrice Charlotte Ritter che combattono ancora una volta ciascuno contro i propri demoni. Da una parte infatti Gereon vorrebbe superare la sua dipendenza dalle droghe, mentre Charlotte fa di tutto per affermarsi in un dipartimento di polizia dominato soltanto da uomini, mentre cerca di dimenticare il suo fosco passato da prostituta.
Questa terza stagione si muove seguendo tre linee narrative. La storia principale è una classica detective story ambientata nel mondo del cinema. Un misterioso serial killer si aggira tra gli studi cinematografici mietendo vittime sul set di uno dei primi film sonori. Siamo in pieno cinema espressionista e la star della pellicola, Betty Winter, viene assassinata mentre è in scena. Sarà compito dei due poliziotti scoprire il responsabile di una lunga catena di omicidi che metterà alla luce anche loschi traffici legati alla criminalità organizzata. La seconda trama, invece, è incentrata sulla vita privata del commissario Rath. Sua moglie lo lascia per intrattenere una relazione extra coniugale con l’ambiguo Alfred Nyssen che sta mettendo a punto un piano finanziario che dovrebbe entrare in atto con la primi crisi economica.Il terzo segmento narrativo, infine, è quello che vede un giornalista indipendente indagare sul riarmo segreto della Germania. Su tutti i personaggi incombe il crollo della borsa di Wall Street nel cosiddetto Black Friday, e l’avvento al potere del partito nazista.
Prodotta da Tom Twiker, regista di Lola corre, la serie conferma la sua riuscita con un cast azzeccato, su tutti l’affascinante Liv Lisa Fries nei panni di Charlotte,  e la star tedesca  Volker Bruch in quelli dell’ispettore Rath.
La confezione è impeccabile e gioca abilmente con gli stilemi dell’espressionismo tedesco mentre il dramma assume toni sempre più cupi destinati ad esplodere probabilmente nella quarta stagione.

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Aggiornamenti ogni lunedì.

domenica 3 maggio 2020

I media al tempo del coronavirus. Spillover di David Quammen - Jovanotti, Non voglio cambiare pianeta - iPhone SE

Spillover di David Quammen
In questi tempi di paranoia e reclusione è tornato alla ribalta un libro uscito in Italia circa 3 anni fa e che all’epoca era passato quasi inosservato ma che ora, invece, sta conoscendo una meritata diffusione. Spillover, del documentarista David Quammen è, infatti, da parecchie settimane al numero 1 delle vendite su Amazon

L'autore
David Quammen è uno scrittore e divulgatore scientifico statunitense. Per quindici anni ha curato una rubrica intitolata "Natural Acts" per la rivista Outside. I suoi articoli sono apparsi su National Geographic, Harper's, Rolling Stone, New York Times Book Review e altri periodici.
Precedentemente a Spillover Quammen aveva pubblicato Alla ricerca del predatore Alfa: il mangiatore di uomini nelle giungle della storia e della mente, un saggio dedicato ai grandi predatori e alla paura atavica dell’uomo verso questi animali che in passato erano ritenuti, a ragione, un pericolo mortale.

Significato
Spillover è il termine tecnico con il quale si sottolinea il passaggio di un virus dall’animale all’uomo. Quammen si è dedicato per anni alle zoonosi e il tema centrale del suo lavoro è stato evidenziare come gran parte delle malattie mortali, la Sars nel 2009, ad esempio, o Ebola, derivino dal passaggio del virus dai pipistrelli all’uomo e come tali malattie provengano quasi tutte dalla Cina o dall’Asia. 
Una tesi profetica, almeno quanto il film di Steven Soderberg Contagion che nel 2011 preconizzava una pandemia proveniente dall’Asia con effetti molto simili a quelli attuali del corona virus.

Da dove vengono i virus
Per Quammen i virus non vengono da un altro pianeta e non nascono dal nulla. I responsabili della prossima pandemia sono già tra noi, sono malattie che oggi colpiscono gli animali ma che potrebbero da un momento all'altro fare un salto di specie – uno “spillover” in gergo tecnico – e colpire anche gli esseri umani.

Ricerche & Interviste
Il libro è davvero unico nel suo genere: un po' saggio sulla storia della medicina e un po' “reportage”, è stato scritto in sei anni di lavoro, durante i quali Quammen ha seguito gli scienziati al lavoro nelle foreste congolesi, nelle fattorie australiane e nei mercati delle affollate città cinesi. L'autore ha intervistato testimoni, medici e sopravvissuti, ha investigato e raccontato con stile quasi da poliziesco la corsa alla comprensione dei meccanismi delle malattie. E tra le pagine più avventurose, che tengono il lettore con il fiato sospeso come quelle di un romanzo “noir”, è riuscito a cogliere la preoccupante peculiarità di queste malattie.

Previsione inquietante
Quammen mette insieme una storia letteraria delle grandi epidemie, e insieme ci spiega perché saranno sempre di più: parla (siamo nel 2012, tenete a mente) della prossima pandemia globale e si chiede se verrà fuori da “un mercato cittadino della Cina meridionale”, spiegando puntualmente che questi virus sono l’inevitabile risposta della natura all’assalto dell’uomo agli ecosistemi e all’ambiente. “Quando hai finito di preoccuparti di questa epidemia, preoccupati della prossima”, ha detto con poco ottimismo di recente in una sua column sul New York Times. 

L'intervista
Sul sito italiano di Wired è possibile leggere un’intervista davvero interessante all’autore nella quale si cerca di comprendere quali siano le responsabilità dell’uomo in queste pandemie. 
Ma l’aspetto più attraente di Spillover risiede nel mettere il lettore nei panni del virus, spiegando come le alterazioni ecologiche che gli esseri umani mettono in moto con frequenza sempre maggiore creano le condizioni perfette perché questi micro organismi proliferino. 
A mo’ di esempio Quammen spiega che il continuo disboscamento delle foreste tropicali in Africa e in Amazzonia porta letteralmente a terra milioni di microrganismi, batteri e virus che, inevitabilmente, prima o poi si trasferiscono da un animale all’uomo.

Le ragioni della pandemia
Le ragioni per cui assisteremo ad altre crisi come questa nel futuro sono quattro.
1) i nostri diversi ecosistemi naturali sono pieni di molte specie di animali, piante e altre creature, ognuna delle quali contiene in sé virus unici; 
2) molti di questi virus, specialmente quelli presenti nei mammiferi selvatici, possono contagiare gli esseri umani; 
3) stiamo invadendo e alterando questi ecosistemi con più decisione che mai, esponendoci dunque ai nuovi virus;
4) quando un virus effettua uno spillover, un salto di specie da un portatore animale non-umano agli esseri umani, e si adatta alla trasmissione uomo-uomo, quel virus ha vinto la lotteria: ora ha una popolazione di 7.7 miliardi di individui che vivono in alte densità demografiche, viaggiando in lungo e in largo, attraverso cui può diffondersi. 
Così, quando un virus degli scimpanzé, per esempio, fa il salto per diventare un virus dell’uomo, ha aumentato enormemente il suo potenziale di successo evolutivo.

Jovanotti Non voglio cambiare Pianeta
Il 24 aprile è stato pubblicato su RaiPlay il boxset del docutrip in 16 puntate Non voglio cambiare pianeta, scritto e diretto da Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti. 

Il viaggio
Dopo il clamore e il caos mediatico suscitato l’estate passata dal Jova Beach Party, che ha visto Jovanotti esibirsi in un tour estenuante su tutte le spiagge italiane, Lorenzo Cherubini era abbastanza stressato e aveva bisogno di una pausa di riflessione.
La sua passione per la bicicletta è nota, così come i suoi viaggi impossibili, che nel corso degli anni lo hanno visto partire in solitaria in posti lontani e talvolta inospitali come la Nuova Zelanda.
Così a gennaio, ignorando le lusinghe che provenivano da Fiorello e Amadeus che lo volevano a Sanremo, il nostro ha preso la sua bicicletta da corsa e con i suoi 40 chili di bagaglio, si fa per dire, leggero, è partito per il Sudamerica per un viaggio in solitaria di 40 giorni che nei mesi di gennaio e febbraio lo ha portato dal Cile a Buenos Aires. 

La serie
Tornato in Italia con oltre 30 ore di riprese, filmate con una GoPro e un cellulare Lorenzo si è messo al montaggio col suo fidato autore Federico Taddia e ha realizzato 16 puntate da 15 minuti che ha riunito in una serie dal titolo Non voglio cambiare pianeta, tratto da un verso di una poesia di Pablo Neruda. 
La serie è disponibile dal 24 aprile su RaiPlay ed è caratterizzata dalla vitalità e dall’ottimismo di Jova che con un candore poetico attraversa la panamericana e poi le Ande, fino a percorrere le interminabili pampas argentine, superando ogni genere di avversità - la polvere, il caldo tropicale, la pioggia torrenziale, il freddo delle montagne, conscio dell’importanza che questo viaggio ha sulla sua personalità dopo il clamore e il caos suscitato la scorsa estate dal Jova Beach Party.
E’ un viaggio intimista alla ricerca di se stesso che, nella tradizione nobile dei viaggi in solitario di Bruce Chatwin, mette a nudo la personalità di Lorenzo Cherubini che si confessa con una sincerità disarmante. 

Critica & Successo
Sostenuto da una campagna stampa pervasiva Non voglio cambiare pianeta sta ottenendo un grande successo, con oltre 5 milioni di visualizzazioni nella prima settimana di pubblicazioni.
Le critiche sono state lusinghiere, Aldo Grasso sul Corriere.it ha scritto che nei giorni in cui tutti stiamo sperimentando la costrizione della reclusione, il suo viaggio è profumo di libertà, voglia di scoperta, fascino di terre sconfinate e deserte. 

Il linguaggio
Piace poi il linguaggio nuovo di questo docutrip presentato in mini puntate da 15’ che sono poco utilizzabili in un palinsesto lineare ma diventano ideali e per certi versi strategiche in un palinsesto on demand come quello di RaiPlay.

L’ultima pagina di queste news settimanali è dedicata alla tecnologia.

iPhone SE 
Da pochi giorni è disponibile sul sito della Apple il nuovo smartphone della Mela, l’atteso iPhone Se. Perché atteso? Perché è il cellulare economico del listino iPhone e ha delle caratteristiche che dovrebbero garantire un asset di vendita molto forte, soprattutto per tutti coloro che magari non possono o non vogliono spendere 1.000 Euro per un cellulare ma non vogliono rinunciare alle funzionalità di un iPhone.

Il prodotto
Il prodotto è una combinazione astuta tra materiali di riciclo e nuova tecnologia. 
La scocca è quella dell’iPhone 8, con uno schermo LCD 4,7 IPS, mentre il cuore dello smartphone è costituito dal chip A13, già montato anche sull’iPhone 11 Pro. 
Un processore ultraveloce, il più performante sul mercato, che garantisce delle prestazioni super anche sul piccolino di casa Apple. 
Lo smartphone ha una resistenza all’acqua di circa 30 minuti. 
La fotocamera, invece, è quella dell’iPhone 11, con un grandangolo da 12 megapixel che fornisce delle immagini dettagliate e ben contrastate. 
La sezione video registra a 4k, a 1080 pixel e a 720. 
Il telefono ha il touch Id e il tutto gira sul sistema Ios 13 che garantisce una stabilità senza pari e aggiornamenti per ben 5 anni. 
Il prezzo, nella versione da 64 GB, è di 499 Euro, mentre la versione a 128 viene 549 e quella a 256, 669 Euro.

Pro e contro
Tanto, poco? Il dibattito nella rete è aperto e, come nelle migliori tradizioni, è diviso tra gli estimatori della mela e i suoi detrattori. C’è quindi chi sostiene che il prezzo è troppo elevato per uno smartphone che in fondo ricicla parte dell’hardware proveniente da altri modelli e in particolar modo dall’iPhone 8, e dunque lo definisce una specie di Frankenstein e chi, invece, sostiene che è una genialata, ad esempio Andrea Galeazzi nel suo blog.
La verità è che attualmente sul mercato non esistono smartphone “economici” con siffatte prestazioni, mi riferisco in particolare alla presenza del processore A13, e l’iPhone SE potrebbe davvero assestare un colpo micidiale alla concorrenza.
Vedremo chi avrà ragione quando usciranno i dati di vendita del primo trimestre.


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Aggiornamenti ogni lunedì.

American Gigolò e Cruising. Il cinema americano anni ‘80 tra Eros e Thanatos.

L’inizio degli anni ‘80 coincide con l’uscita nelle sale di due opere che affrontano il tema del sesso da due angolazioni opposte suscitando...