lunedì 1 giugno 2020

Shining compie 40 anni ma non li dimostra

Il cinema si evolve grazie al genio e all’intuizione di alcuni folli visionari.

Nel dicembre del 1895 i fratelli Lumiére presentarono al Café di Boulevard des Capucines a Parigi una loro invenzione chiamata cinématographe. Su un telo bianco si potevano vedere degli operai uscire da una fabbrica.
Abel Gance, nel 1927, presentò il suo monumentale Napoleon proiettando tre immagini in contemporanea su tre schermi. Chiamò questa tecnica Polivision. 30 anni prima di Hollywood aveva inventato il formato anamorfico Cinemascope.
Nel 1926, i tecnici della Warner Bros acquistarono dalla Western Electric il Vitaphone, un sistema per il sonoro sincronizzato con le immagini. Il 27 ottobre del 1927 fu presentato il primo film sonoro, Il cantante di Jazz.
Nel 1977 George Lucas decise di registrare l’audio del suo Star Wars con una nuova tecnica chiamata Dolby Surround. 

Nel 1974 Ed Di Giulio della Cinema Products Corporation presentò a Stanley Kubrick il filmato contenente alcune “riprese impossibili”, realizzate con una nuova invenzione dell’operatore Garrett Brown. Il regista di 2001 guardò con attenzione le immagini che mostravano la macchina da presa navigare fra i rami dei pini di una foresta e inseguire una donna su per le scale del Museo di Philadelphia. Kubrick tentò di capire come era stato possibile far galleggiare la macchina da presa senza alcun percepibile mezzo di controllo. Le riprese erano troppo morbide e fluide per essere state effettuate con qualsiasi tecnica convenzionale. Qualche giorno dopo il regista mando un telegramma a Di Giulio nel quale si congratulava con lui, suggerendogli però di eliminare dal filmato le due occasioni in cui l’ombra del terreno offriva la possibilità di vedere l’ombra di un uomo con qualcosa alla base di una canna che sembrava muoversi lentamente. Il telegramma terminava con una domanda: “c’è un’altezza minima a cui è possibile usarla?”.
Nel preciso istante in cui il cineasta aveva veduto quelle immagini incredibili aveva deciso che quella invenzione, chiamata steadycam, sarebbe stata sfruttata nel suo nuovo film, Shining.


Stanley Kubrick sul set di Barry Lyndon

UN’ARTISTA INCOMPRESO?

Il destino di molti film di Stanley Kubrick è quello di non essere stato capito al momento della sua uscita. E’ successo con 2001: Odissea nello spazio, giudicato incomprensibile, si è ripetuto con Arancia Meccanica, condannato come un film violentissimo e non come un apologo della violenza nella società occidentale, e ancora con Barry Lyndon, giudicato calligrafico. Medesima sorte toccò a Full Metal Jacket nel 1987, penalizzato dal successo di Platoon un anno prima, vincitore di 4 premi Oscar. Rivisti entrambi, appare fuori discussione quanto il film di Kubrick ancor’oggi sia attuale nei contenuti e moderno nella forma quanto il film di Oliver Stone appaia imbolsito e retorico.

Non stupisce dunque che la stessa cosa sia accaduta a Shining, oggi riconosciuto come una delle più grandi opere del cinema horror che rivaleggia solo con un altro classico, L’Esorcista di William Friedkin, titolo peraltro molto ammirato da Kubrick.

Shining uscì prima in America e poi in Italia, un paio di mesi prima di Vestito per uccidere di Brian De Palma. Il paragone, inevitabile, fu tra un film manieristico come quello di De Palma (a suo modo una pietra miliare del thriller anni ‘80) e l’opera di Kubrick, che ai più parve fredda e poco coinvolgente.

Confesso di essere stato uno dei tanti che all’epoca sottovalutò Shining. Ero allora un adolescente, più attratto dal voyeurismo morboso di De Palma che dal razionalismo geometrico di Kubrick. Il pirotecnico stile del regista di origini italiane, in particolare la lunga sequenza di pedinamento nel museo, dove Angie Dickinson è sedotta da uno sconosciuto, mi aveva entusiasmato, mentre la rappresentazione asettica dell’Overlook Hotel mi aveva annoiato. Naturalmente mi sbagliavo. Ho rivisto Dressed To Kill e mi è parso un calco, abbastanza riuscito, di Psycho. Al contrario, l’ennesima visione di Shining, fatta in questi giorni per festeggiare il suo quarantesimo compleanno, mi ha confermato l’eccezionalità di un autore che con soli 13 film è considerato uno dei maestri del cinema.


La prima edizione del libro

IL FILM E IL LIBRO

Jack Torrance accetta un posto di guardiano per la stagione invernale all’Overlook Hotel. Raggiunto l’albergo insieme alla moglie Wendy e al figlio Danny, scopre che anni addietro il precedente guardiano si tolse la vita dopo aver ucciso la moglie e le due figlie. Danny, che possiede un particolare potere di preveggenza, ha delle inquietanti visioni di quanto avvenne. In realtà l’hotel è stregato e le forze maligne cercano di impossessarsi dello spirito del bambino spingendo il padre alla follia e all’omicidio. 

L’undicesimo film di Kubrick, è il risultato di una caparbia ossessione del regista nel voler trasporre sullo schermo una storia dell’orrore, utilizzando le più sofisticate tecniche cinematografiche che il cinema, alla fine degli anni ‘70, poteva offrire. Il film fu uno dei primi ad usare la steadycam, lasciando stupefatti gli spettatori più attenti per la fluidità e la perfezione di alcune scene che, fino a quel momento, potevano essere riprese solo con una traballante macchina a mano.
Terminata l’immane fatica di Barry Lyndon Kubrick aveva deciso di cimentarsi con il genere horror. Dopo aver analizzato e scartato decine di romanzi, Kubrick trovò nell’omonimo libro di Stephen King ciò che andava cercando. 

I cambiamenti che Kubrick apportò alla trama originale, fortemente criticati dal romanziere, hanno trasformato il senso di Shining; due in particolare sono da ritenersi fondamentali: il finale, tanto complesso e aperto a mille interpretazioni nel film, quanto lineare e diegeticamente corretto nel libro, e il labirinto (assente dal romanzo) che fornisce una delle possibili chiavi di lettura dell’intera opera.
Da tradizionale racconto di fantasmi, Shining è divenuto nelle mani del regista una profonda riflessione sulla follia legata alla creatività e sulla capacità dell’arte di invadere, in modo distruttivo, l’esistenza stessa dei protagonisti. Il labirinto che Jack osserva in una miniatura dell’albergo intravedendo le figure della moglie e del figlio ormai sperduti fra curve e vicoli ciechi, è il corso stesso dei suoi pensieri in cui la logica vaga allo sbando, alla ricerca di una possibile via d’uscita. 

Nel romanzo di King Jack Torrance trovava infine la forza di sfuggire alla possessione diabolica suicidandosi, nel film di Kubrick il protagonista è invece dannato sin dal momento in cui, con lucida follia, compone centinaia di pagine con l’ossessivo motto "Il mattino ha l’oro in bocca" (in originale: "all work and no play makes Jack a dull boy", cioè "troppo lavoro e nessuno svago fanno di Jack un tipo sciocco"). Le esplosioni di orrore che investono i protagonisti, sospese tra realtà e visione, sono in quest’ottica un progressivo avvicinamento al baratro della follia. La moglie di Jack, ormai coinvolta nel gioco omicida instaurato dal marito, varcherà infine la sottile linea che intercorre fra delirio e raziocinio quando, benché priva di poteri paranormali, osserverà come reali le inquietanti visioni di lussuriosi ospiti in maschera impegnati in una fellatio. Ma Shining è un labirinto in cui risulta fin troppo facile perdersi: meglio gustarlo come esemplare horror e lasciare che gli interrogativi, anche i più assurdi, sgorghino copiosi dalla sinistra visione di quella foto che chiude il film, datata 4 luglio 1921, in cui un Jack Torrance che non dovrebbe trovarsi lì, ci sorride sornione.


King, Nicholson e Kubrick
King, Nicholson e Kubrick


LE POLEMICHE

Nel 1977 King era già conosciuto grazie al successo ottenuto dal film tratto dal suo primo lavoro, Carrie lo sguardo di Satana, diretto da Brian De Palma (ancora lui!). Lo scrittore stava diventando un fenomeno. Quando uscì Shining aveva 32 anni e aveva venduto 22 milioni di copie con sei romanzi e un’antologia di racconti. Pertanto l'offerta di Kubrick lusingò il suo ego e gli parve una grande occasione. Ben presto però egli si rese conto che il regista non avrebbe realizzato un adattamento fedele al suo romanzo e preferì mettersi da parte, lasciando totale libertà al cineasta. E’ cosa risaputa che King non ami il film e lo consideri, parole sue, “una grossa Cadillac senza motore”, piena di cose belle ma per lo più slegate tra loro. Al sanguigno scrittore non piacque l’approccio realista di Kubrick, accusato di avere travisato il romanzo. Nel numero di Playboy del giugno 1983 comparve un’intervista rilasciata a Eric Norden che, nei fatti, era un regolamento di conti. Secondo lo scrittore il regista aveva frainteso il libro. Kubrick era una persona che pensava troppo e sentiva poco. La principale colpa del regista era quella di avere identificato il male solo nei personaggi e non nell’albergo, per King una vera e propria batteria di malvagità. Kubrick non conosceva le regole dell’horror e le aveva disattese. Inoltre, l’interpretazione di Nicholson era considerata dallo scrittore grottesca e fuori fuoco.
Kubrick, dal canto suo, già nel 1980 parlava del libro di King in termini riduttivi “...penso che nel romanzo, King indugi troppo nelle spiegazioni psicologiche, io ho tenuto l’essenza del personaggio, sfrondandolo di tante cose. Non penso che al pubblico mancheranno le parti del libro nelle quali King spiega il passato di Jack, i suoi rapporti col padre. Tutto ciò dal punto di vista narrativo in un film è irrilevante. Leggendo il romanzo, ho avvertito che King stava cercando di spiegare perché sono successe tutte quelle cose orribili, e penso che ciò sia sbagliato, poiché la forza principale della storia risiede nella sua ambiguità. Penso che l’ossessione di King sia stata quella di far capire a tutti che il suo romanzo fosse vera letteratura.
Per Kubrick la sceneggiatura del film, realizzata con la scrittrice Diane Johnson, era molto più accurata e attenta alle relazioni interpersonali di quanto non lo fosse il romanzo. In quanto alla Johnson il suo giudizio su King era sintetico ma ingiusto: “per essere sincera, non avevo mai letto i libri di King. Pensavo fossero il genere di romanzi che si compra negli aeroporti.


Jack Nicholson e Stanley Kubrick sul set di Shining


LA REALIZZAZIONE

La lavorazione di Shining fu lunga e complicata. Dopo essersi baloccato con l’idea di tornare in America per girare il film in Colorado, il regista decise infine di restare in Inghilterra e di girare negli studi di Elstree, dove ricostruì gli interni dell’albergo. Il rapporto con i due attori fu problematico. Jack Nicholson era nel suo periodo lisergico e passava da un party all’altro, secondo lo storico John Baxter, consumando fiumi di cocaina. Al contrario, Shelley Duvall non riusciva a capire cosa volesse il regista e doveva ripetere le scene centinaia di volte. Il film sforò il piano di lavorazione, una cosa normale per i film di Kubrick, e alla fine uscì in tutti gli Stati Uniti il venerdì 13 giugno del 1980. Gli incassi furono buoni la prima settimana poi calarono del 29 per cento già dalla seconda e alla fine totalizzarono negli Stati Uniti 30.9 milioni di dollari. Le reazioni della stampa furono ambivalenti. Newsweek lo definì “il primo film dell’orrore epico, un film che sta agli altri film dell’orrore come 2001: Odissea nello spazio sta agli altri film di fantascienza.” Variety, invece, fece a pezzi la pellicola e in modo particolare la performance di Nicholson.

Esistono tre versioni di Shining. La prima, della durata di 146’, ha avuto un percorso breve. Dopo l’anteprima statunitense Kubrick decise, infatti, di eliminare la scena finale girata in ospedale tra il manager dell’albergo, interpretato da Barry Nelson, e Shelly Duvall. Troppe spiegazioni, sentenziò il critico Roger Ebert, e Kubrick, che aveva la massima stima delle sue opinioni, torno al montaggio ed eliminò la scena. La seconda versione è quella da 144’, regolarmente distribuita nei cinema americani, pubblicata qualche mese fa nel mercato nostrano in un’edizione speciale in DVD, Bluray e Vod. Questa versione, lunga 22 minuti in più di quella europea, differisce da quest’ultima per una lunga serie di raccordi narrativi che servono a spiegare meglio i rapporti interpersonali della famiglia Torrance. In realtà non aggiungono nulla alla storia, al contrario la rallentano diluendo la tensione.


Shelley Duvall

LA PELLICOLA

Il film ancor oggi è terrificante, fin dalle prime strepitose inquadrature iniziali. Il maggiolino di Jack Torrance percorre le tortuose strade di montagna in mezzo a scenari maestosi, resi inquietanti dalla musica di Krzysztof Penderecki. Con l’aiuto della steadycam, magistralmente pilotata dal suo inventore, Garrett Brown, Kubrick disegna all’interno dell’albergo percorsi geometrici fatti di ipnotiche carrellate o di sinuosi pedinamenti, mentre il piccolo Danny sfreccia veloce tra i corridoi dell’hotel, inseguito o anticipato dalle sue terrificanti visioni. 

La geografia dell’albergo, illuminata dal fidato direttore della fotografia John Alcott (premio Oscar per Barry Lyndon), diventa così impossibile da mappare e somiglia al labirinto di siepi nel quale Jack Torrance si perderà. La cucina e la sua dispensa, l’immenso salone nel quale lo scrittore tenta di scrivere il suo libro, il minuscolo appartamento e le innumerevoli stanze (su tutte la 237 of course) sono solo frammenti di un più ampio mosaico nel quale lo scrittore perderà il senno.

La forma sovrasta il contenuto in una messa in scena, commentata dalle musiche del già citato Penderecky ma anche di Gyorgy Ligeti, Béla Bartok e Wendy Carlos, che richiama il cinema muto con citazioni esplicite da Il carretto fantasma di Viktor Sjostrom (vedere per credere la sequenza in cui Jack abbatte con l’ascia la porta del bagno dove si è rifugiata la moglie, disponibile su Youtube) o da Nosferatu di Murnau e Il gabinetto del Dottor Caligari di Robert Wiene.

Interessante è anche il macabro senso dell’ironia del regista che si percepisce nell’interpretazione istrionica di Nicholson - molte volte sopra le righe in un over acting imposto da Kubrick - che culmina con la celebre battuta “Heeeere’s Johnny!” - da noi tradotta: “sono il lupo cattivo”, oppure nella grottesca fine di Scatman Crothers, accorso nell’albergo per soccorrere la famiglia.


Sono il lupo cattivo!

TEORIE

Otto anni fa l’uscita del documentario Room 237, diretto da Rodney Ascher, ha riacceso la discussione sulla pellicola. Come ogni film del maestro americano anche e soprattutto Shining è stato oggetto di discussione tra i fan del film e la critica circa i reconditi significati celati al suo interno. Una serie di indizi, spesso fuorvianti, che Kubrick ha disseminato nella sua opera con l’intenzione di far discutere anche dopo la proiezione. Per tornare al documentario è indubbio che alcune delle spiegazioni presentate sono convincenti, su tutte quella che inquadra il film come una feroce critica dell’imperialismo americano. L’Overlook Hotel, infatti, è costruito sul cimitero di una riserva indiana ed è legittima la tesi che l’albergo sia infestato dagli spiriti dei nativi americani.

Ad ogni nuova visione - o revisione - Shining innesca nuove riflessioni. Rivederlo in pieno Covid 19 ci rammenta il nostro forzato isolamento e i rischi che comporta per la salute mentale.

Di tutte le teorie che ruotano intorno alla pellicola una vede l’Overlook Hotel come una metafora degli orrori generati dalla élite americana, un tema che si riallaccia al mondo della potente borghesia di Eyes Wide Shut. L’hotel ha una presenza minacciosa che incute timore in coloro che hanno la sensibilità per percepire le oscure presenze che lo abitano. 

L’orrore è ricorrente lì, c’è stato, c’è e ci sarà ancora, suggerisce Kubrick nell’ultima inquadratura del film.

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